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Perché l'Italia non è competitiva

I dati che spiegano la sconfitta

I vizi italiani vengono da lontano, ma il governo di Berlusconi finora ha fallito sulla via della modernizzazione

di Alessandra Servidori - 13 aprile 2005

In questa situazione di confusione politica è importante essere lucidi per non sbagliare analisi. Nel 2001, il centro sinistra, che pure aveva avuto il grande merito di portare l’Italia nel club dell’euro, non era riuscito a convincere gli italiani della sua propensione a varare e sostenere un programma in grado di avviare la modernizzazione della società, oggettivamente necessaria nel nuovo contesto europeo e, ancor prima, all’interno dei processi di globalizzazione. Così l’elettorato aveva consegnato il potere, con una notevole maggioranza, a un’opposizione che sembrava più innovativa e meno ingessata da corporazioni potenti la cui preoccupazione era solo quella di salvaguardare i propri interessi particolari. Ecco perchè Berlusconi non deve cercare troppo lontano per capire i motivi della sconfitta, sempre che gli alleati gli lascino il tempo, la voglia e la lucidità necessari. Non ha neppure il bisogno di passare in rassegna, nel salotto buono di Bruno Vespa, gli adempimenti riguardanti il “patto con gli italiani”. E' sul terreno della modernizzazione e dell’innovazione che questo Governo ha in larga misura fallito, commettendo l’errore, che si è rivelato esiziale, di voltare le spalle – spesso con atteggiamenti polemici incomprensibili e nocivi – a quella cultura del rigore e della stabilità (che è parte integrante della costituzione materiale della Ue) la quale avrebbe largamente contribuito a sostenere a giustificare le scelte strategiche di un esecutivo liberale e liberista non solo a parole. Oggi il Cavaliere paga un conto salato non per essere venuto meno a questa o a quella promessa o per aver varato qualche provvedimento discutibile. L’elettorato gli rimprovera di non aver tenuto fede al mandato di modernizzazione a cui lo aveva chiamato. Non è tutta colpa dell’attuale maggioranza se l’Italia perde colpi sul terreno di una competitività divenuta sempre più esigente. I mali del Paese vengono da lontano ed invocano responsabilità molteplici, a partire da quelle della sinistra e dei sindacati. Ma quando viene il momento di tirare le somme, di trarre dei bilanci, è normale che i cittadini se la prendano col Governo in carica, chiedendogli conto dei ritardi e del declino. Soprattutto quando quei ritardi e quel declino stanno pregiudicando il futuro della nazione. I dati parlano col linguaggio della chiarezza. Secondo una recente indagine dell’Ocse riguardante il carico di regolamentazione del mercato, condotta su 30 paesi, l’Italia si colloca al 14° posto in termini di vincoli all’impresa, al 23° per barriere al commercio e agli investimenti, al 28° (terzultimo) relativamente al controllo pubblico. Un’atra indagine, condotta dal World Economic Forum sulla competitività, pone l’Italia nella 45° posizione su 104 paesi, con alcune performance ancora peggiori: siamo al 64° posto sul piano della collaborazione tra industria e università, al 71% per efficacia dell’azione legislativa, al penultimo per quanto concerne gli oneri amministrativi. Secondo la Banca Mondiale, il tempo necessario per avviare un’attività economica, da noi, è di 13 giorni (5 in Usa, 6 in Francia); i costi rappresentano il 16% del reddito pro capite. Per ottenere una sentenza in sede di giustizia civile occorrono 1.390 giorni. La durata media delle cause di lavoro supera, in primo grado, i 700 giorni; quella di una controversia previdenziale è pari mediamente a 938 giorni. Si è calcolato che il complesso di queste disfunzioni assorba un punto di Pil. In questi giorni è in atto una assurda campagna in difesa della banche nazionali contro la penetrazione straniera nel settore. Nessuno dice, però, che i conti correnti italiani sono i più cari d’Europa: 113 euro l’anno, contro una media Ue di 76. Ci sono poi altri handicap per le imprese italiane: l’Italia è al settimo posto fra i 30 paesi Ocse per pressione fiscale, ai primi con riferimento all’aliquota contributiva pensionistica. Per l’energia elettrica il nostro Paese ha i prezzi medi più elevati fra tutti quelli Ue: 100 kilowattora per l’industria costano 8,6 euro contro una media europea di 6,13. Più ancora dell’energia sui bilanci delle imprese pesano i costi dei servizi dei liberi professionisti, i cui Ordini continuano ad opporsi ad effettivi processi di liberalizzazione. Per finire, i nostri laureati escano dalle Università ad un’età superiore di 4-5 anni rispetto a quella dei loro coetanei europei. Come si vede, si tratta di un lungo elenco di “vizi assurdi” che vengono necessariamente da lontano. Il fatto di averli trovati al momento dell’ingresso nella “stanza dei bottoni” non può giustificare la scelta di averli lasciati, immutati, al loro posto. Dunque , comunque , per governare questo Paese è bene cambiare passo, strategia e imboccare con decisione la strada di quel riformismo pragmatico che assicura con forze e idee innovative la soluzioni dei problemi economici dell’Italia: coraggio, intelligenza, capacità e partecipazione possono migliorare il lavoro e la società.

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