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Public Policy

Cogliamo le vere sfide globali

I casi Fiat e Alcoa

È ora di scegliere. Lo si chiede alla politica, ma anche alle imprese e le loro rappresentanze

di Enrico Cisnetto - 05 febbraio 2010

Siamo ancora al dibattito, vecchio di decenni, sullo stato assistenziale? Guardando i casi Fiat e Alcoa viene da pensare che l’orologio della storia abbia messo indietro le lancette fino a tornare ai tempi delle partecipazioni statali e al loro ruolo di ammortizzatore sociale in termini di produttore di occupazione. Questi anni – quelli della globalizzazione come pure i più recenti che, per il tramite della crisi finanziaria e della recessione mondiale, hanno dimostrato l’infondatezza delle politiche liberiste – evidentemente non hanno insegnato niente. Non hanno insegnato ai lavoratori, ma soprattutto a chi li rappresenta (o sostiene di farlo) in politica come sul piano sindacale, che la competizione è ormai planetaria e attardarsi a tenere in piedi baracconi improduttivi con sostegni pubblici di vario genere solo per avere il consenso che deriva dal mantenimento a qualunque costo dell’occupazione, ha come unica conseguenza abbassare i livelli di produttività e dunque condannarsi alla marginalità nel contesto globale.

Ma l’esperienza di questi anni non ha insegnato nulla neppure ai nostri governi, visto che sono rimasti fermi al “pensiero unico” che negava la politica industriale come mezzo di indirizzo dell’economia, scambiandola con la pianificazione di stampo sovietico, senza capire che non occorre essere keynesiani per imparare che il mercato da solo, senza la capacità di indirizzo strategico di chi è investito della responsabilità politica e dunque è chiamato a salvaguardare l’interesse generale, non è di per sé virtuoso.

Così da oscillare tra il “lasciar fare” deresponsabilizzante – ho già scritto in questa sede che mi sarei aspettato che Berlusconi a suo tempo chiedesse a Marchionne un piano d’integrazione tra Fiat e Chrysler, non che applaudisse il suo sbarco negli Usa come se fosse stato un novello Cristoforo Colombo – e l’interventismo che sa battere solo il tasto degli incentivi in cambio del mantenimento dei posti di lavoro (compresi gli indifendibili, come quelli di Termini Imerese). Per questo non riesco a dar torto a Marchionne, al di là della sua impoliticità spesso intempestiva, quando dice che al governo “decidete se ripristinare e per quanto gli incentivi o meno, che la Fiat se ne farà una ragione, ma non imponeteci di tenere aperti impianti improduttivi”.

Tuttavia, ben poco hanno imparato anche le imprese. Faccio due esempi. Uno aziendale, Alcoa, l’altro associativo, Confindustria. Mi pare evidente che la multinazionale americana dell’alluminio prenda a pretesto le possibili obiezioni di Bruxelles al decreto che il governo italiano sarebbe disposto a fare per permetterle di avere elettricità a un prezzo inferiore, cioè in linea con quello europeo, per giustificare una decisione strategica già presa di abbandonare gli stabilimenti in Italia e Spagna (come sostiene l’autorevole Metall Bulettin, e come testimonia implicitamente un’intervista dello stesso numero uno di Alcoa, Klaus Kleinfeld, alla Bartiromo di Cnbc riprodotta da Mf). Del resto, se investono 11 miliardi di dollari in Arabia Saudita non è certo perché prevedano una forte ripresa del mercato dell"alluminio (che anzi è in contrazione in tutto il mondo), ma perché come dice Kleinfeld lì ci sono costi più bassi che in Europa, nonostante tutti gli sforzi per fargli avere in Italia elettricità a basso costo. Lì, infatti, gli danno infrastrutture, miniere di bauxite ed equidistanza dai mercati europei e asiatici, tutta roba che in Sardegna (o in Spagna) non abbiamo. Bene.

Ma allora si va dal governo del paese che intendi abbandonare e si apre un negoziato che sappia mediare tra il tuo interesse a localizzarti altrove – è la globalizzazione, dobbiamo imparare a prenderne atto – e quello del sistema-paese che deve ricollocare i lavoratori in altre attività. Le quali, però, non si creano difendendo l’indifendibile e spendendo denari per casse integrazioni senza futuro, ma si creano – se del caso anche con soldi pubblici o favorendo modalità pubblico-private – ma indirizzandosi verso iniziative, industriali o terziarie che siano, capaci di avere chance nella competizione globale.

E qui siamo a Confindustria. Che mostra molte debolezze. Primo: difendere tutto e tutti significa non riuscire a tutelare nessun interesse. Secondo: chiedere soldi solo per l’esistente, senza peraltro operare alcuna selezione, e non per creare nuovi avamposti nei settori più strategici e a più alto valore aggiunto, alla lunga significa impoverire il capitalismo italiano.

Terzo: rappresentare poco e male alcune grandi imprese pubbliche, parzialmente tali o addirittura ex tali (Finmeccanica è appena uscita sbattendo la porta da Confindustria Genova) solo per ragioni ideologiche è una forma di autolesionismo senza pari, anche perché ad esse sono attaccate intere filiere produttive fatte di piccole e medie imprese. Insomma, bisogna scegliere. Lo si chiede giustamente alla politica, lo facciano anche con chiarezza le imprese e le loro rappresentanze.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.