E’ ora di agire. Le proposte tecniche non mancano
I bot e il nodo dei rendimenti
Non raccontiamo frottole. Impariamo ad usare il modo virtuoso i nostri risparmidi Enrico Cisnetto - 15 dicembre 2008
Nei momenti di crisi ci vogliono anche gli ottimisti, per carità, ma una cosa è “pensare positivo” un’altra raccontar frottole. Così, di fronte ad una richiesta quasi doppia rispetto ai 3,84 miliardi di Btp emessi dal Tesoro per mettere fieno in cascina in vista di un 2009 terribile, non si può far credere che i nostri titoli di Stato siano chissà quale oggetto del desiderio degli investitori. La realtà, più sgradevole ma di cui sarà bene prendere atto, è invece legata ai rendimenti: per avere quei soldi, il Tesoro ha dovuto pagare fino al 5,02% di interessi, contro il 3,7% dei Bund tedeschi e il 4,1% degli Oat francesi (solo i titoli pubblici greci hanno uno spread più alto, intorno ai 180 punti base, rispetto ai Bund, che i mercati considerano il benchmark europeo). Persino un osservatore di solito molto misurato come Carlo Azeglio Ciampi, parlando da ex Governatore della Banca d’Italia, ha detto che quel “differenziale” arrivato a toccare i 140 punti “è un segnale pericoloso che nessuno dovrebbe sottovalutare”. Anche perché 100 punti di costo di finanziamento del debito equivalgono a circa 13 miliardi (una “manovra”, e nemmeno delle più leggere).
Per questo va archiviata come “bufala” la teoria salvifica, molto gettonata negli ultimi tempi, secondo la quale la situazione del debito italiano non sarebbe grave perché oltre a quello pubblico (alto) c’è quello privato (basso) e i due debiti fanno una media più che accettabile. Magari. Ma vallo a spiegare a quegli investitori istituzionali (al 45% internazionali) che detengono la maggioranza dei nostri Bot e Btp. A loro, infatti, non frega che l’Italia sia uno “Stato povero” (sempre più) abitato da “gente ricca” (sempre meno). No, a loro importa che il debito pubblico made in Italy sia più alto del pil e che di questi tempi – con la crisi finanziaria mondiale che ha definitivamente chiuso la lunga stagione del “debito eccessivo” (di famiglie, imprese, Stati) – tutto questo sia un lusso non più concedibile a nessuno. Ecco perché chiedono uno spread rispetto a chi è più solido e ha i conti a posto. Dunque, possiamo raccontarci tutte le favole auto-consolatorie che vogliamo, ma finché non avremo trovato dei meccanismi di compensazione che fungano da vasi comunicanti tra i “due debiti” – e pure tra i “due patrimoni”, cioè quello pubblico (sempre meno gestito) quello privato (ancora ricco, ma in modo vistosamente decrescente) – il cappio al collo continuerà a stringerci.
Una soluzione, quella più facile ma anche potenzialmente virtuosa, per la verità l’avevamo trovata: le privatizzazioni. Peccato, però, che quei 280 miliardi che ne abbiamo ricavato siano serviti solo per far cassa, cioè per sostenere (anzi, aumentare) la spesa pubblica corrente – senza neppure il beneficio di aver cambiato la faccia del nostro asfittico capitalismo – e che dunque il problema sia tuttora irrisolto, visto che nei sedici anni che ci separano da Maastricht il debito pubblico è stato ridotto di 0,25% all’anno. E se non si vuole arrivare ad una patrimoniale secca – che non sarebbe neanche più, come si diceva un tempo, una “partita di giro”, perché metà del debito è in mani straniere – bisogna inventarci un modo virtuoso, cioè redditizio, di usare il risparmio degli italiani per sistemare una volte per tutte la finanza pubblica. Le proposte tecniche non mancano, ora tocca alla volontà politica.
Per questo va archiviata come “bufala” la teoria salvifica, molto gettonata negli ultimi tempi, secondo la quale la situazione del debito italiano non sarebbe grave perché oltre a quello pubblico (alto) c’è quello privato (basso) e i due debiti fanno una media più che accettabile. Magari. Ma vallo a spiegare a quegli investitori istituzionali (al 45% internazionali) che detengono la maggioranza dei nostri Bot e Btp. A loro, infatti, non frega che l’Italia sia uno “Stato povero” (sempre più) abitato da “gente ricca” (sempre meno). No, a loro importa che il debito pubblico made in Italy sia più alto del pil e che di questi tempi – con la crisi finanziaria mondiale che ha definitivamente chiuso la lunga stagione del “debito eccessivo” (di famiglie, imprese, Stati) – tutto questo sia un lusso non più concedibile a nessuno. Ecco perché chiedono uno spread rispetto a chi è più solido e ha i conti a posto. Dunque, possiamo raccontarci tutte le favole auto-consolatorie che vogliamo, ma finché non avremo trovato dei meccanismi di compensazione che fungano da vasi comunicanti tra i “due debiti” – e pure tra i “due patrimoni”, cioè quello pubblico (sempre meno gestito) quello privato (ancora ricco, ma in modo vistosamente decrescente) – il cappio al collo continuerà a stringerci.
Una soluzione, quella più facile ma anche potenzialmente virtuosa, per la verità l’avevamo trovata: le privatizzazioni. Peccato, però, che quei 280 miliardi che ne abbiamo ricavato siano serviti solo per far cassa, cioè per sostenere (anzi, aumentare) la spesa pubblica corrente – senza neppure il beneficio di aver cambiato la faccia del nostro asfittico capitalismo – e che dunque il problema sia tuttora irrisolto, visto che nei sedici anni che ci separano da Maastricht il debito pubblico è stato ridotto di 0,25% all’anno. E se non si vuole arrivare ad una patrimoniale secca – che non sarebbe neanche più, come si diceva un tempo, una “partita di giro”, perché metà del debito è in mani straniere – bisogna inventarci un modo virtuoso, cioè redditizio, di usare il risparmio degli italiani per sistemare una volte per tutte la finanza pubblica. Le proposte tecniche non mancano, ora tocca alla volontà politica.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.