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Scarsi controlli e nomine sbagliate

Guaio senese

Le coperture politiche sono fornite da gente pericolosa non tanto per la propria attitudine delinquenziale, quanto per la pochezza intellettuale e la miseria morale

di Davide Giacalone - 20 febbraio 2013

E’ un errore leggere la vicenda del Monte dei Paschi di Siena, quindi anche l’inchiesta penale che lo riguarda e travolge, alla luce della campagna elettorale. E’ sbagliato perché riduttivo. Si tratta di una faccenda più grossa e più grave, destinata a crescere di peso, anche relativamente alle responsabilità politiche. Prima del voto qualcuno vorrebbe sentirsi dire quel che è ovvio: non si sarebbe mai potuti giungere a tale grado di degenerazione senza la consapevole compartecipazione del sistema di potere che fa capo al Pd. Il problema, però, si presenterà dopo il voto, quando Pier Luigi Bersani non potrà minacciare di “sbranare” nessuno, ma proverà a non essere sbranato accampando (pur esistenti) ragioni d’interesse nazionale.

Le inchieste penali hanno due caratteristiche: a. riguardano eventuali responsabilità personali; b. si traducono in verità giudiziaria solo con le sentenze. La prima cosa comporta che s’incentri l’attenzione su possibili arricchimenti, frutto di reati, in capo a questo o quello, escludendo che potessero esistere senza che ne fossero protagonisti i vertici della banca. La seconda sposta nel tempo le possibili conseguenze. Si dovrebbe accelerare? Attenti, perché se la procura di Siena facesse la scelta di chiedere il giudizio immediato, posto che, ovviamente, sarebbe comunque dopo le elezioni, con ciò stesso favorirebbe l’idea che tutto si limiti all’agire di qualche profittatore. Invece c’è ben di più.

Sia la Banca d’Italia che la Consob producono documentazione nella quale provano a dimostrare di avere fatto diligentemente il loro lavoro, non avendo alcunché da rimproverarsi. Lasciando da parte le questioni penali, ove noi garantisti non deroghiamo mai e per nessuno alla presunzione d’innocenza, è piuttosto evidente che i controlli non hanno funzionato. Tanto che Mario Draghi precisa: per forza, era in atto un crimine, non una semplice cattiva amministrazione. Quei controlli, sia chiaro, non sarebbero comunque dovuti servire a decidere se acquistare o meno una banca (Antonveneta), pagandola uno sproposito (e all’estero), o a stabilire se certi prodotti finanziari fossero o meno un buon affare. Queste sono scelte della banca. Avrebbero, però, dovuto tempestivamente riconoscere la natura truffaldina di certi prodotti, ove questi siano stati contabilizzati in aumento capitale non avendo la caratteristica per esserlo, e avrebbero dovuto puntare l’attenzione sulla Fondazione Mps (competenza governativa), che sottoscriveva l’aumento di capitale non avendone i soldi e allo scopo di non diluire il controllo sulla Banca, posto che, invece, la legge prevedeva proprio una discesa del peso azionario della Fondazione. Com’è stato possibile? Per inciso: l’accordo scritto, fra Pd e Pdl, firmato da Ceccuzzi e Verdini, mi pare una bischerata (o si tratta di due bischeri), ma la sostanza rileva proprio circa il controllo della Fondazione, esercitato tramite gli enti locali, per spartizione politica. Se il Pdl avesse avuto voglia, di certo questa sarebbe stata una giusta battaglia. Non l’ebbe.

Gianluca Baldassarri, all’epoca responsabile dell’area finanza Mps, si difende sostenendo di avere sempre e subito avvisato gli organi di controllo. Mente? Può darsi, ma deve risultare dalle carte. Se la sua non è una difesa temeraria, o disperata, il problema si sposta sui controlli interni, ma anche esterni. Qui si pone un problema enorme: può l’Italia permettersi di accumulare carte giudiziarie in qualche modo negative per l’allora governatore della Banca d’Italia? La risposta è: no. Ma tale senso di responsabilità non deve essere chiesto alla magistratura, cui non si può suggerire (anche autorevolmente) l’insabbiamento, né ai mezzi d’informazione, inducendoli a tacere o minacciandoli se parlano. Va chiesto alla Banca d’Italia: Anna Maria Tarantola non può continuare a tacere. Deve assumersi le sue responsabilità, siano esse quelle di riconoscere una mano leggera o di accollarsi in pieno la difesa dell’operato. Certo, l’averla nominata presidente della Rai non è stata idea brillantissima. E dimostra quanto siano mondane le scelte “tecniche”.

La difesa di Giuseppe Mussari, immagino, consisterà nel dire: mica ho deciso da solo di comprare Antonveneta. Quella fu una scelta politica, non a caso avallata da un consiglio d’amministrazione ove 14 consiglieri su 16 sono nominati dalla Fondazione, che ci mise anche i soldi. E la Fondazione è l’incarnazione del potere locale del Pd. Che non può, in eterno, replicare lo schema collaudato con Telecom Italia: noi credemmo nell’operazione di mercato, non ci capimmo un fico secco e siamo stati fregati da compagni che arraffano. Suvvia! A voler credere loro se ne dedurrebbe che sono il veicolo preferito da chi ordisce affari utili solo a sottrarre ricchezza all’Italia, per poi ciucciarla altrove. C’è qualcuno disposto a credere che ciò lo si debba alla diabolica mente di Mussari? Io no, secondo me non è in grado di pensarne la metà. Il che, però, rende più intrigante la domanda: chi lo volle al vertice dell’Abi, posto che trattasi d’un pessimo banchiere? La risposta è: tutti. Lo votarono tutti. Due volte. Ed è questa risposta il vero problema, che non troverà soluzione in tribunale: il sistema consociativo genera mostri, la poca libertà economica propizia impoverimenti, mentre le coperture politiche sono fornite da gente pericolosa non tanto per la propria attitudine delinquenziale, quanto per la pochezza intellettuale e la miseria morale.

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