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Legge elettorale

Grilli e grulli

Fuggire dal bipolarismo, cancellando (di fatto) il premio di maggioranza, non risolve nessun problema. E’ solo una presa d’atto del fallimento. O qui ci si mette del coraggio politico, oppure si consegna l’Italia ad altri mesi di convulsioni

di Davide Giacalone - 08 novembre 2012

La riforma elettorale che si prospetta, con il premio di maggioranza che scatta solo per chi supera il 42,5% dei voti, serve a una sola cosa: evitare che chi vincerà possa governare da solo. Non me ne rammarico più di tanto, perché il sistema attuale, con il quale s’è votato due volte, avendo vinto la prima la sinistra e la seconda la destra, assegnando il premio di maggioranza alle coalizione ha fatto sì che lo schieramento vincitore avesse una maggioranza parlamentare, ma comunque non potesse governare. Perché le coalizioni sono troppo eterogenee e hanno sempre contenuto un’opposizione interna. Il fatto è che occorre essere politicamente conseguenti con una riforma di quel tipo, altrimenti si traduce in un vantaggio per chi incarna e incassa la protesta, nonché nella rassegnazione all’essere governati da commissari non eletti.

Ha un senso, questa riforma, se si accompagna a un accordo fra le forze maggiori (il Pdl, il Pd e il centro pendolante) teso a: 1. escludere dalle coalizioni di governo tutti gli estremismi; 2. contrarre un accordo riformista, talché l’impegno della prossima legislatura sia immediatamente quello di riformare la Costituzione, dando poteri effettivi al governo, e contrarre il debito pubblico, mediante dismissioni. Fuori da questo scenario, che neanche s’intravvede, è un suicidio che innesca una stagione trasformista. Ben accompagnata, del resto, dalla tesi candidamente esposta da Mario Monti: spero che i ministri attuali si candidano, ove proprio non resistano al desiderio (inutile) di farsi eleggere, in modo bipartisan. Come a dire: a. l’impronta politica del governo è e sarà variopinta; b. tanto poi si ritrovano alleati, perché nessuno potrà fare da solo. Un tripudio di debolezza politica e un innesco di trasformismo. Tradizione non ammirevole, ma pur sempre forte, nella nostra storia.

Il bipolarismo della seconda Repubblica ha fallito non perché sia brutto in sé, ma perché non è mai esistito. E’ stato un multipolarismo polarizzato. La più potente linea di divisione non è mai stata programmatica, ma concentrata su berlusconismo e antiberlusconismo, salvo contenere, da entrambe le parti, insuperabili contraddizioni nella rappresentanza delle realtà e degli interessi. Il tutto condito dall’impotenza governativa e dal vaniloquio parlamentare. Si è spinto l’illusionismo fino a far credere che i cittadini eleggano il presidente del Consiglio, al punto che a sinistra ci fanno anche le primarie, ma la realtà è così evidentemente diversa che a Palazzo Chigi siede chi mai si candidò.

Fuggire dal bipolarismo, cancellando (di fatto) il premio di maggioranza, non risolve nessun problema. E’ solo una presa d’atto del fallimento. O qui ci si mette del coraggio politico, anteponendo alle elezioni l’accordo esplicito e particolareggiato delle forze riformiste, oppure si consegna l’Italia ad altri mesi di convulsioni, mascherate da una fasulla stabilità a-democratica. Il risultato potendo essere solo: la perdita di sovranità, il crescere dei fenomeni antagonisti e della frammentazione. Il pericolo, insomma, non sono i grilli, ma i grulli che s’ostinano a credere di contare e rappresentare qualche cosa. Cimentandosi nell’eroico tentativo di restare dove sono.

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