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Deindustrializzazione e consenso

Governo cercasi

I due grandi pozzi da cui i partiti possono attingere per non sprecare la campagna elettorale

di Enrico Cisnetto - 14 dicembre 2012

Il dibattito politico italiano ed europeo dovrebbe essere animato da una sola preoccupazione, quella del pericolo derivante dal processo in atto ormai da troppo tempo di progressiva deindustrializzazione, che impedisce la crescita della ricchezza e mina la competitività. Noi dall’aprile 2008, punta massima prima della grande crisi, ad oggi abbiamo perso un quarto esatto di capacità produttiva, di cui sei punti e mezzo nei primi dieci mesi di quest’anno. L’Europa viaggia a meno della metà dell’Italia, ma è ugualmente in crisi. Le previsioni per il 2013 costringono a mettere in conto un prolungamento della recessione, con relative chiusure di impianti produttivi e conseguente disoccupazione. Le cause sono arcinote: il crack finanziario mondiale, l’erosione procurata dai paesi emergenti, la crisi dell’eurozona e le politiche di austerità che essa ha imposto. Quello che manca sono le terapie. A meno che non s’intenda per cura o un generico auspicio di politiche di crescita – un desiderio che non manca sulla bocca di nessuno – o l’invocazione di lasciar fare al mercato senza bisogno di alcuna politica industriale – come se non si fosse già visto dove porta il liberismo – o viceversa il più o meno esplicito appello alla spesa pubblica corrente, intesa genericamente come sussidio o, peggio, come clientela. Questo è quello che passa il nostro convento, ma non mi pare di scorgere negli paesi dell’eurozona livelli di consapevolezza e di responsabilità molto maggiori. Non almeno quando la discussione passa dal livello nazionale a quello comunitario. Sì, certo, non più tardi di ieri il vicepresidente della Commissione europea Antonio Tajani ha auspicato “una politica industriale europea più forte” attraverso “l’attuazione rapida del piano di crescita deciso al vertice Ue di giugno”. E proprio una “base industriale forte, rinnovata e modernizzata” è stata chiesta tre giorni fa in un intervento pubblicato su Le Monde dai ministri dell’Industria di Italia (a firma Corrado Passera), Francia, Germania, Spagna e Portogallo. Nella speranza che la quota di pil continentale derivante dall’attività manifatturiera arrivi (torni) al 20% dall’attuale 15,6% a cui è precipitata. Già, ma basta invocare una cosa perché si manifesti? Ed è sufficiente metter mano al quadro normativo e assumere atteggiamenti che non scoraggino il business – ammesso che si faccia – oppure è indispensabile attivare investimenti? E nel caso, ci si deve limitare a favorire quelli privati o non è meglio prevederne anche di pubblici? E se sì, quali? Ecco, diciamo che di questo ragionamento non si vede neppure l’ombra. Da noi si assiste all’avvizzirsi della base produttiva (la nostra manifattura pesa ancora il 19% del pil, ma avendo perso 7 punti e mezzo in cinque anni di prodotto si è ridotta) con intollerabile rassegnazione e non si fa nulla per modernizzare i servizi e la pubblica amministrazione (che fanno il 75% del pil), dividendoci tra chi vorrebbe fermare le lancette della storia e mantenere in piedi imprese già morte e posti di lavoro inesistenti, e chi invece antepone l’obiettivo del risanamento finanziario a qualsiasi altro, finendo nel cadere in un disperante immobilismo. In Europa, si ciancia da anni di project bonds per le infrastrutture e di riorientamento dei fondi strutturali, di ricapitalizzazione della Bei piuttosto che di creazione di campioni continentali nei settori strategici, ma poco o nulla accade. In Italia, poi, l’apertura della campagna elettorale, che peraltro era in atto surrettiziamente da tempo, ha coinciso con il ritorno alla vuota e irritante contrapposizione bipolare tra chi non ha niente da dire, dopo aver già ripetutamente dimostrato di non saper fare, e questo non lascia alcuna speranza per il futuro. Tuttavia, o la prossima legislatura sarà all’insegna del “investire, investire, investire”, oppure la crisi diventerà drammatica e le conseguenze sociali gravissime. Come? Ci sono due pozzi da cui attingere. Uno è il patrimonio pubblico. Due giorni fa in un’audizione parlamentare il Tesoro, per bocca di Francesco Parlato, ha detto di stimare in circa 640 miliardi il valore di immobili e terreni, cui si aggiunge quello (non specificato) delle 7300 società controllate o partecipate (quasi tutte dagli enti locali). L’altro è il pozzo del patrimonio privato, di cui proprio ieri Bankitalia ha fornito il valore aggiornato: a fine 2011 era pari a 8.619 miliardi, intesa come ricchezza al netto di 900 miliardi di passività finanziarie. Anche solo considerando le attività finanziarie, che sono il 37,2% del totale, stiamo parlando di oltre 3.200 miliardi. Se privatizzato il primo e orientato agli investimenti produttivi il secondo, si possono ottenere risorse sia per ridurre sotto il 100% il rapporto debito-pil (ci vogliono circa 450 miliardi) sia per spingere la ripresa, a sua volta figlia tanto di investimenti privati (agevolati fiscalmente) che di investimenti pubblici diretti in infrastrutture materiali e immateriali, ma anche nuove imprese e aggregazione di imprese esistenti, in settori strategici. Solo che ci vorrebbe un governo, tanto a Roma quanto in Europa…

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.