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Le scelte necessarie per modernizzare il Paese

Gli ingredienti di una strategia vincente

E' necessario che i riformisti si mettano d'accordo per la riforma della cornice istituzionale

di Davide Giacalone - 28 febbraio 2011

C’è una sinistra che piace a chi deve batterla, una sinistra incarnata da Rosy Bindi e Dario Franceschini: faziosa e antiberlusconiana, predisposta a perdere o a esplodere subito dopo un’eventuale vittoria elettorale. C’è, poi, una sinistra di cui l’Italia avrebbe bisogno: riformista, concreta, pronta a parlare con gli elettori più che con le segreterie delle sue mille componenti. Una sinistra che sempre di più ha il volto di Matteo Renzi, sindaco di Firenze. Una sinistra ancora isolata e largamente minoritaria.

Quando leggo (in un’intervista al Sole 24 Ore) che non cede alla demagogia sulla crisi libica, che non s’accomoda alle solite menate propagandistiche, ma si associa alla richiesta di chiedere un coinvolgimento di tutta l’Europa, rizzo le orecchie. Quando afferma che il debito pubblico va ridotto comprimendo la spesa e non aumentando le tasse, restando esclusa la patrimoniale di cui una certa sinistra s’è invaghita, plaudo convinto. Aggiungete che chiede l’abolizione del valore legale del titolo di studio, antico cavallo di battaglia liberale, in modo da rendere migliore anche la scuola pubblica. E considerate che ha il coraggio di dire quel che noi ripetiamo da tempo: i sindacati italiani non rappresentano più i lavoratori, ma prevalentemente i pensionati, giungendo a sostenere che anche le camere di commercio non si sa più cosa ci stiano a fare. Tutte cose che, fin qui, scrivevamo solitari e irrisi, da destra considerati degli illusi rompiscatole e da sinistra dei nemici del popolo. Sicché, senza ironia alcuna, mi lancio in un: evviva il compagno Renzi.

Come si fa, però, a trasformare un “rottamatore” (così detto per la volontà di mandare a casa la vecchia classe dirigente della sinistra) in un leader capace di cambiare il corso delle cose, sia che vinca e sia che perda le elezioni? Servono due ingredienti: il partito e la legge elettorale.

Il partito è indispensabile perché solo dentro quegli organismi possono emergere i Tony Blair, perché solo l’accumularsi delle sconfitte induce a cambiare passo, stile e faccia. Se, invece, si chiamano “partiti” dei corpi vuoti di popolo e di militanti, ove sopravvivono solo gruppi dirigenti autereferenziali, soddisfatti di sé sia che si vinca e sia che si perda (anzi, la sconfitta è più comoda perché consente di non fare i conti con la realtà e di dare la colpa agli altri), il rinnovamento diventa impossibile. Per la semplice ragione che si cancella il futuro e si galleggia nel presente.

Il sistema elettorale conta non solo nel determinare il modo in cui si contabilizzano i voti e si assegna la vittoria, ma anche nel selezionare la classe dirigente, sia di governo che d’opposizione. Il nostro sistema funzionicchia per la prima cosa, ma crea disastri nella seconda.

Tutto questo per dire che se i riformisti, coloro i quali vogliono modernizzare il Paese e sottrarlo alle secche del sempre uguale, non vogliono finire schiavi degli estremisti, come fin qui è stato, occorre che si mettano d’accordo, da qualsiasi parte di trovino, per la riforma della cornice istituzionale. Persone serie che vogliano cambiare la Costituzione avrebbero largo seguito nel Paese, a destra e a sinistra.

La consapevolezza popolare è assai più diffusa di quanto le tifoserie (e un sistema dell’informazione che le alimenta) vogliano lasciar intendere. Se non s’imbocca questa strada ciascun riformista, a destra come a sinistra, sarà neutralizzato non dagli avversari che non s’è scelto, ma dagli alleati che ha dovuto subire.

Pubblicato da Il Tempo

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