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Bruxelles stronca la legge di (in)stabilità

Gli effetti collaterali della bocciatura europea

Invece di indignarci, faremmo meglio a blindare la manovra e sforzarci di inserirci interventi srutturali

di Enrico Cisnetto - 17 novembre 2013

Se c’era un valore tangibile nello stato patrimoniale del governo Letta, quello era il tasso di fiducia di cui l’esecutivo di larghe intese godeva in Europa, e in particolare presso la Germania. Uso il passato, perché mi pare che dopo la sonora bocciatura Ue riservata alla legge di (in)stabilità quel capitale e la conseguente sanzione di non poter iscrivere “fuori bilancio” alcuni investimenti utili per uscire dalla deflazione in cui siamo caduti, sia almeno in parte andato disperso.

Lo so, saranno in molti a compiacersene: quelli che, a destra come a sinistra, questa manovra vogliono cambiarla, quasi sempre per peggiorarla, e quelli che giudicano autolesionista la linea di austerità imposta dal Nord dell’Europa ai paesi meridionali con deficit e debiti eccessivi. Hanno buone ragioni, specie i secondi. Ma nello stesso tempo hanno torto a fregarsi le mani, perché questo passaggio segnala una caduta di credibilità dell’Italia che potrebbe rimettere in moto lo spread sonnolente e fare più danno di un downgrade del rating. Si dice: non c’è da meravigliarsi che Bruxelles, abituata a ragionare sulla base di piani triennali, bocci le chiacchiere italiane. Vero. Ma è pur sempre la prima volta che sulla manovra d’autunno esprime una valutazione preventiva, senza aspettare l’esito dell’iter parlamentare. Evidentemente lo teme, ed è difficile darle torto visto che neppure le larghe intese risparmiano dalla pioggia di migliaia di emendamenti. Il governo ha rassicurato circa il rispetto del tetto del deficit, ma la Commissione non sa se fidarsi. E con il “two pack” i commissari hanno il diritto-dovere di mettere il naso nei bilanci dei singoli paesi. Abbiamo ceduto quote di sovranità fiscale, è inutile stupirsi e indignarsi.

Sia chiaro, ha ragione il professor Guarino quando dice che nei Trattati la clausola del deficit al 3% non c’è scritta. Ma abbiamo noi la forza e la credibilità necessarie per poterci ribellare? No. Né possiamo permetterci di uscire unilateralmente dall’euro. Dunque, tanto vale provare a fare quelle riforme strutturali che l’Europa ci chiede, e che in tutti sarebbe nostro interesse fare. Ammodernare la nostra macchina pubblica, pletorica e inefficiente, non è forse utile comunque? Ridurre l’enorme quantità di soggetti del decentramento amministrativo, ridefinendo il ruolo delle Regioni, è cosa che ci dobbiamo far imporre da Bruxelles? E applicare i costi standard nella sanità? Di solito si replica: ma noi abbiamo già fatto fin troppi sacrifici, adesso basta.

Ma a parte il fatto che questi non sono sacrifici – o meglio, si sacrificano rendite parassitarie – ma riforme necessarie, in tutti i casi togliamoci dalla testa che il più sia fatto e che ora tutto ci deve tornare indietro, e con gli interessi. Noi, Ue o non Ue, ne abbiamo ancora di lavoro da fare per sistemare i nostri squilibri, e chi dice il contrario rende un cattivo servizio al Paese.

Per esempio, siamo consapevoli che dal 2015 in poi ogni anno dobbiamo tagliare di un ventesimo la quota eccedente il 60% del debito (sul pil)? Abbiamo predisposto lo smobilizzo del patrimonio pubblico necessario per ottenere questo risultato? Invece di indignarci con il pur antipatico Olli Rehn, faremmo meglio a blindare la manovra (per evitare di peggiorarla) e sforzarci di metterci dentro, aggiuntivamente, qualcosa che assomigli ad una riforma strutturale. (twitter @ecisnetto)

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