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Fondazioni: un volano del nostro capitalismo

Giusto riconoscimento, ma tardivo

Adesso bisogna che anche Mediobanca restauri il proprio ruolo di merchant bank

di Enrico Cisnetto - 03 novembre 2006

Giuseppe Guzzetti che finalmente incassa per le fondazioni bancarie la (meritata) legittimazione di “investitori istituzionali”. Alberto Nagel che, con una presunzione pari alla sua modestia, si arroga il diritto di stabilire chi dovrebbero essere gli azionisti di Mediobanca. In questi due momenti, separati poche ore l’uno dall’altro ma apparentemente estranei tra loro, ci sono le chiavi per interpretare come potrebbero evolvere – o ulteriormente involvere – gli assetti del malridotto capitalismo italiano. Cominciamo dal presidente dell’Acri. Nella “giornata del risparmio”, l’uomo che più di ogni altro in questi anni si è battuto contro il “pensiero debole” che voleva, in nome di un liberalismo malinteso, sradicare le fondazioni dalle banche, si è preso una clamorosa rivincita. Al cospetto del “nemico” – ora addomesticato? – Giulio Tremonti, e a un capo dello Stato sensibile alle sue tesi, Guzzetti si è sentito dire prima da Mario Draghi e poi da Tommaso Padoa-Schioppa non solo che le fondazioni bancarie hanno fin qui ben operato, non solo che è da togliere il tetto del 30% che gli è stato appioppato per la presenza nelle banche, ma anche che esse si sono guadagnate sul campo il titolo pieno di soggetti primari del nostro sistema creditizio e che più in generale rappresentano strumenti decisivi per il rilancio del nostro fragile capitalismo. Mi sia consentito – visto che per anni, tra gli opinionisti, sono stato pressoché solitario nel sostenere queste tesi – di aggiungere anche la mia personale soddisfazione. Con il rammarico, però, che nel frattempo – mentre i nostri liberisti scolastici (specie quelli di sinistra) si baloccavano in una disputa tutta ideologica su “mercato sì, fondazioni no” – alcuni istituti sono finiti in mani estere, le grandi famiglie sono andate a rotoli, l’establishment si è dilaniato e nessun progetto per il futuro è stato messo in cantiere. Mentre, nella povertà di soggetti finanziari istituzionali capaci di darci un capitalismo un po’ meno straccione e autoreferenziale, le fondazioni avrebbero potuto spendersi per assetti più solidi e per sostenere iniziative più strategiche, se solo non fossero state costrette a passare il tempo a giustificare la loro esistenza. Comunque, meglio tardi che mai. E se poi anche due personalità come Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi si decidessero a rivedere i loro giudizi, allora davvero si sarebbe sgombrato il campo dalle macerie ideologiche e si potrebbe ricominciare a ridisegnare la mappa del sistema economico e finanziario avendo le fondazioni – e, si spera il più presto possibile, i fondi pensione – come baricentri. Anzi, butto il cuore oltre l’ostacolo e dico che non sarebbe male se si studiasse il modo per trasformare in fondazione anche la Cassa Depositi e Prestiti, con tutto quello che ha in pancia e (soprattutto) quello che potrebbe avere.
Qualcuno obietterà: Guzzetti novello Cuccia, che fa il padrone assoluto? No, penso che anche il presidente dell’Acri considererebbe ardito l’accostamento, e poi quella Mediobanca era l’unico “regista” del capitalismo italiano, mentre le fondazioni sono una pluralità che ha imparato la lezione della separazione tra il ruolo di azionista e quello di gestore. Detto questo, di una Mediobanca che pur avendo perso il potere assoluto – per forza, non ci sono più né Cuccia né le condizioni oggettive – sappia essere qualcosa di meglio di una merchant bank come ce ne sono tante sul mercato (magari con più risorse e prestigio internazionale), se ne sente davvero un gran bisogno. E certo l’improvvida uscita del direttore generale Nagel non incoraggia la speranza che dopo la meritoria opera di pulizia e razionalizzazione fatta da Gabriele Galateri, ci sia all’orizzonte una nuova stagione dell’ex creatura di Cuccia. Forse sarà l’eccesso di stock option milionarie a dare alla testa – cattiva abitudine fin troppo diffusa, per essere un capitalismo in declino – ma ci sono in giro molti manager che pensano di doversi scegliere gli azionisti, anziché essere viceversa. Nello specifico, poi, pensare che il problema di Mediobanca sia la presenza nel suo capitale di Unicredito e Capitalia – che Nagel vorrebbe veder ridotta – significa non aver capito la mission della “nuova Mediobanca”. La quale rischia di essere sempre di più una succursale delle Generali, che prima o poi qualcuno gli soffierà (e soffierà all’Italia) da sotto il naso.

Pubblicato sul Foglio del 3 novembre 2006

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