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Il caso del consorzio per i trasporti

Galileo docet: le reti siano pubbliche

Sulle grandi opere i liberisti imparino da British Railways. E’ la strategicità, bellezza

di Enrico Cisnetto - 21 maggio 2007

Il fallimento del consorzio Galileo è l’ennesima dimostrazione di quanto sia inutilmente accademico il dibattito, tutto italiano, sui confini tra il mercato e l’intervento pubblico nell’economia. E di come la responsabilità delle decisioni strategiche – ancorché onerose – se la debba assumere la politica, quella nazionale e a maggior ragione quella europea. La scorsa settimana la Commissione Ue ha deciso l’assunzione in toto nel bilancio comunitario del costo di installazione del sistema di navigazione satellitare continentale che dovrà fare concorrenza all’americano Gps.

Una decisione obbligata, dopo tutti i ritardi accumulati dal consorzio di aziende private (composto da Finmeccanica, Eads, le francesi Thales ed Alcatel, le spagnole Aena e Hispasat, la britannica Immersat e la tedesca TeleOp) che doveva assumersi i due terzi dei 3,4 miliardi di euro complessivi di spesa. Scelta “pubblica” che il commissario ai Trasporti, Jacques Barrot, ha motivato con la necessità di garantire il controllo delle frontiere, la logistica dei trasporti, la sicurezza delle operazioni finanziarie e la sorveglianza delle infrastrutture di energia e delle comunicazioni, smarcandosi dalla tecnologia statunitense – con tutto quello che ne consegue dal punto di vista geopolitico – così come stanno già facendo la Russia e la Cina.

E il faraonico bilancio di Bruxelles non risentirà certo dei 400 milioni l’anno da stanziare per un progetto che vedrà la messa in orbita dei trenta satelliti nel 2012. Sempre che si riesca a superare l’opposizione di inglesi ed olandesi, i quali, invece, per risparmiare vorrebbero continuare a usare il Gps made in Usa. Chiudendo la porta in faccia ad una tecnologia che domani rappresenterà un’arma di competitività globale sia in campo militare che nei servizi civili di nuova generazione.

Ma, al di là del suo esito, questa vicenda dimostra come l’idea di una Ue cane da guardia del “privato” pronto a sbranare ogni aiuto di Stato sia soltanto roba per teorici. La realtà è che c’è tutta una serie di investimenti fondamentali per lo sviluppo – prima di tutto le reti infrastrutturali – che per loro natura e dimensioni non sono realizzabili, o comunque non sono realizzati, dai privati. E siccome bisogna realizzarli per forza, altrimenti si diventa marginali nell’economia globale e digitale, non c’è nulla di male se i costi di start-up li sostiene il settore pubblico, consentendo poi ai privati di scendere in campo soltanto nella fase della gestione e commercializzazione (se così avessimo privatizzato Telecom, mantenendo pubblica la rete, oggi non avremmo i problemi che abbiamo di fronte).

Non solo: è anche ora di rendersi conto che le infrastrutture di trasporto (delle persone, dell’energia, delle informazioni), se vengono vendute alle imprese, rischiano o l’obsolescenza – come è accaduto alle British Railways, e dell’errore fatto l’Inghilterra se n’è resa conto solo dopo i tragici disastri ferroviari – oppure di finire nel mare delle polemiche, visto che le aziende concorrenti reclamano parità di accesso e lamentano, a torto o a ragione, casi di concorrenza sleale, come per Telecom. Meglio, molto meglio, la neutralità statale. Ecco perché oggi è assolutamente necessario che le nuove grandi reti siano a responsabilità (se non a proprietà) pubblica, e possibilmente, comunitaria. Galileo docet.

Pubblicato su Il Gazzettino di domenica 20 maggio

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