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Roma: innovazione solo da Eni ed Enel

Futuro senza high-tech

In Cina studiano le biotecnologie. In Italia buone prospettive per camerieri e badanti

di Donato Speroni - 04 ottobre 2005

Non c’è da rallegrarsi, a leggere quello che il direttore generale del Censis Giuseppe Roma ha scritto sul Corriere della Sera di venerdì 30. Quali saranno le frontiere del futuro per il lavoro dei giovani? Roma spiega che il boom occupazionale che nel periodo 2000 – 2004 ha fatto crescere gli occupati di un milione 194mila addetti si è verificato per il 30% nelle attività professionali di servizio alle imprese. Seguono il comparto delle costruzioni e delle attività immobiliari con il 19%, quindi il turismo e i servizi di cura alla persona con il 15% ciascuno.

E in futuro che cosa accadrà? Per Roma, anche se l’Italia è fuori “dai grandi processi d’innovazione e ricerca”, avremo i benefici occupazionali dell’high tech “almeno nel settore dell’energia (anche grazie a Eni ed Enel) e soprattutto delle telecomunicazioni”. Le altre frontiere del futuro saranno: la domanda di professionalità nel campo dei processi d’impresa, dalla gestione alla vendita; il “terziario della conoscenza creativa” legato alla multimedialità; ma soprattutto una grande domanda di servizi alla persona, soprattutto quelli legati al benessere psicofisico.

Fa riflettere che gli unici apporti occupazionali legati all’innovazione sono indicati dal direttore del Censis in quei settori legati alle poche grandi imprese sopravvissute, prevalentemente provenienti dal settore pubblico, come Eni, Enel o Telecom. Nessuno si aspetta che settori decotti come il tessile o il calzaturiero di massa possano creare nuova occupazione. Ma i dirigenti di Pechino, per esempio, hanno di recente annunciato che in cima alle loro strategie future ci sono non le magliette, bensì le biotecnologie. Decine di migliaia di giovani cinesi si stanno preparando. In Italia invece secondo Roma (che non parla a vanvera) settori come il biotech non ci saranno né con imprese nostre e neppure con imprese a capitale estero. E lo stesso discorso vale per altri settori ad elevata intensità di ricerca, come le nanotecnologie.

Hanno dunque ragione i giovani che non iscrivono più al Politecnico o alle facoltà scientifiche e affollano le aule di Comunicazione? Sembrerebbe tragicamente di sì. Ma non illudiamoci: senza una politica di rilancio dell’innovazione (vorrei chiamarla politica industriale, ma si rischia di passare per dinosauri) una parte rilevante delle nuove generazioni è destinata a lavorare come camerieri o massaggiatori. Lavori rispettabili, che rispecchiano un’Italia piena di turisti e attenta al proprio benessere psicofisico. Ma che non corrispondono ai sogni di un genitore quando manda un figlio all’università.

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