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L'editoriale di TerzaRepubblica

Finalmente la scissione

Ma dopo il Pdl, deve essere il turno del Pd. E poi potremo archiviare per sempre il bipolarismo bacato

16 novembre 2013

Coltiviamo la speranza che la tempestosa fine del Pdl, sei anni dopo la sua nascita annunciata a Milano in un luogo “consono” (sic) come il predellino di un’automobile in una piazza, e la conseguente travagliata rinascita di Forza Italia, segnino la definitiva scomparsa del centro-destra così come lo abbiamo fin qui conosciuto. Non per fare una cortesia al centro-sinistra, ma al contrario nella convinzione e speranza che lo scompaginarsi di un polo produca – nella logica dei vasi comunicanti che contraddistingue il bipolarismo italico – lo stesso effetto nell’altro. Al momento in cui scriviamo, non sappiamo come finirà il Consiglio Nazionale del Pdl convocato da Berlusconi per (ri)cambiare il nome del partito, ma la dichiarazione di Alfano che annuncia la nascita di un nuovo gruppo parlamentare – la cui forza dovrebbe consistere, in partenza, in 30 senatori e 26 deputati – che si chiamerà “Nuovo centro-destra”, lascia presumere che la spaccatura sia a questo punto definitiva. E tale da consentire la nascita di una nuova maggioranza di governo, più ristretta ma – forse – un po’ meno disarticolata di quella nata per ragioni di sopravvivenza dopo il punitivo voto di febbraio.

Tuttavia, il tema non è tifare per le colombe e contro i falchi in modo da evitare la sciagurata ipotesi di far cadere un governo di larghe intese che il giorno dopo eventuali elezioni anticipate si dovrebbe riformare per mancanza di alternative. No, la speranza, come si diceva, è che la rottura in casa Berlusconi metta in moto una valanga che finisca per travolgere anche il Pd, peraltro già ben predisposto di suo a rompersi per via della guerra in atto nei confronti di Renzi alle primarie, che fa presagire quello che è già stato definito uno “scisma silenzioso”. L’obiettivo è quello di seppellire una volta per tutte e senza alcuna possibilità di riesumazione la sciagurata stagione politica chiamata Seconda Repubblica. La quale, per la verità, era già defunta nel novembre 2011 al momento dell’abdicazione di Berlusconi, ma che purtroppo sia l’estrema debolezza dei due governi di grande coalizione che si sono succeduti nel frattempo (Monti e Letta) sia per il mancato avvio a soluzione della crisi istituzionale in atto non ha potuto essere archiviata definitivamente. A questo punto, infatti, soltanto l’implosione di Pdl e Pd può consentire quel “big bang” che è necessario non solo per cominciare a costruire la Terza Repubblica, ma anche per evitare che il prossimo appuntamento elettorale – quale che esso sia e in qualunque momento avvenga – si trasformi in uno tsunami disastroso, capace di aprire le porte a forze populiste contrarie ad una maggiore integrazione europea e favorevoli alla fine dell’euro.

Certo, dopo l’implosione bisognerà ricostruire. Ma intanto il “big bang” avrà consentito di rompere gli apparati e scremare il personale politico. Ed è sperabile che escano vivi dalla setacciata le persone e i gruppi meno compromessi. Poi bisognerà far largo a forze nuove, le quali si vedranno invogliate a provarci grazie agli spazi che si saranno aperti. Gli italiani vogliono personalità e soggetti politici “avulsi” dal sistema politico che hanno condannato senza appello, e questa è la miglior premessa per chi si vorrà cimentare. Ed è un gran bene che questo processo, complicato ma inevitabile se si vuole salvare il Paese evitando che precipiti nel baratro di una crisi politico-istituzionale senza sbocchi, avvenga prima delle elezioni, non per causa delle elezioni. Consideriamo più che sufficiente l’avviso alla politica mandato con la scorsa consultazione elettorale: 10 milioni di voti in meno a Pd e Pdl, un’astensione senza precedenti e il 25% a Grillo sono segnali inequivoci. Ora si tratta di trarne le conseguenze.

Avendo cura di buttare a mare prima del tempo il governo. Non perché meriti la sufficienza – che neppure l’Europa gli assegna, visto il modo con cui è stata accolta la legge di (in)stabilità, ma perché non ce n’è un altro a portata di mano. Se poi il governo ci mettesse un briciolo di suo per trarsi d’impaccio, sarebbe anche meglio. Per esempio, non è pensabile che vari la manovra finanziaria e poi la lasci straziare da un branco famelico di emendatori, che nella maggior parte dei casi, tra l’altro, intendono peggiorarla. Il governo ha deciso di varare questa legge di stabilità? Bene, se ne assuma la piena responsabilità e la difenda. Il governo si è accorto che le scelte che ha fatto non vanno o che qualcuno sta proponendo idee migliori? Ancor meglio, si assuma la responsabilità di dire al Paese che ha sbagliato e ne proponga una nuova. L’importante è che usi la fermezza. Perché la cosa peggiore che si possa fare, tanto più in una fase di generalizzata sfiducia come quella che stiamo attraversando, è iniettare dosi di incertezza in un corpo, quello sociale e produttivo italiano, che è già fortemente debilitato proprio a causa del sommarsi di mille indeterminatezze e insicurezze. Altro che “va bene qualunque modifica purché lasci invariati i saldi”. Anche perché sappiamo come finisce: che la manovra ne esce peggiorata e con i saldi “sforati”. Visto l’alto tasso di instabilità politica che , questo atteggiamento è nello stesso tempo comprensibile – ciascuno pensa a massimizzare il proprio specifico nella convinzione, quasi sempre erronea, di guadagnarci elettoralmente – ma pernicioso, perché è proprio con questo atteggiamento remissivo, sempre alla ricerca della mediazione preventiva, che si alimenta l’instabilità e quindi l’incertezza. Non è questione di “palle d’acciaio” o meno, è questione di cifra politica.

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