Magistrati, non sono i giudici supremi
Fermiamo il motivazionismo
Le motivazioni dovrebbero spiegare le sentenze secondo diritto. Invece i giudici si erigono a censori morali. Tutto ciò è intollerabiledi Davide Giacalone - 23 novembre 2013
Bisogna fermare la letteratura giudiziaria. Non è il primo problema della giustizia italiana, la peggiore del mondo civilizzato, la più lenta, la più arrogante, la più capace di tenere in galera innocenti e di togliere diritti anziché tutelarli. Eppure la letteratura delle motivazioni, il socioluogocomunsimo delle sentenze, il moralismo delle argomentazioni, addirittura i viaggi nell’animo umano, sono il segno di un terrificante imbastardimento culturale. Chi scrive certe cose pensa d’essere il giudice supremo, non la toga che applica il diritto. E se i tanti magistrati che fanno con correttezza il loro lavoro riescono, in qualche modo, a evitare che il treno giudiziario deragli del tutto, nessuno di loro è in grado di fermare l’effetto devastante di un degenere filone letterario: il motivazionismo.
Leggete quel che si trova scritto in un atto, destinato all’applicazione degli arresti domiciliari, nel mentre il cittadino (costituzionalmente innocente) si trova ancora in galera: “ha iniziato a prendere coscienza dei danni causati e, nonostante l"inizio di tale percorso di ripensamento della propria condotta non sia ancora approdato ad una conclamata resipiscenza …”. Ma chi crede di essere, l’estensore di queste righe? Forse avrebbero potuto prenderlo alla santa inquisizione, benché lì la selezione fosse più severa e si richiedeva anche maggiore proprietà di linguaggio. Nessuna sentenza, mai, può porsi il tema della “conclamata resipiscienza”. Questo caso (molto noto, ma è del tutto ininfluente il cittadino cui si riferisce) non è affatto isolato, dilagando l’abitudine di mettere nelle motivazioni degli atti considerazioni del tutto estranee al mondo della legge e del diritto.
Conosco l’obiezione polemica: allora aboliamo le motivazioni, previste dalla Costituzione. L’idea che non solo le sentenze, ma tutti gli atti giudiziari e tutti i provvedimenti limitativi di quale che sia libertà personale, debbano essere “motivati” ha un senso preciso: non possono essere arbitrari. Motivare significa esplicitare in base a quale legge si ritiene di procedere in quel modo. Tanto che, nella Costituzione, lo si prevede quale premessa del possibile ricorso avverso il provvedimento: tu mi dici in base a quel circostanza e legge mi sequestri dei beni, o mi apri la posta e io ricorro spiegando perché ti sei sbagliato e sto subendo un’ingiustizia. La Costituzione (articolo 111) prevede anche che siano motivate le sentenze. In altri sistemi questo non è necessario. Negli Usa, ad esempio, è escluso: colpevole o innocente. Punto. E’ la logica conseguenza dell’accusatorio puro (il nostro è bastardo assai). Anche in questo caso, però, l’obbligo di motivare si lega al diritto di ricorrere. Della serie: ti abbiamo considerato colpevole di omicidio perché il morto è stato ammazzato a coltellate e sul coltello c’erano le impronte della tua mano destra. Ricorso: i giudici hanno preso un granchio, perché sono monco della mano destra. Serve a questo e così devono essere scritte.
Invece si scorrazza, per centinaia di pagine, nel sociologismo per nullatenenti culturali, nel psicologismo per freudiani affetti da turbe della personalità, nell’intimismo sentimentale per anoressici che mai divorerebbero un codice. E queste pagine di ridicola drammaturgia finiscono poi nelle mani di un’altra categoria ove l’analfabetismo è preludio di compitazione: i giornalisti. Da qui parte il rimbalzo del copia e incolla, non a caso due attività manuali. E gli stessi cui mai un editore avrebbe pubblicato le stucchevoli poesie (se non a spese del poeta togato), si ritrovano sulle prime pagine, in un lirico delirio d’onnipotenza. Da qui svolgono il più diseducativo dei ruoli: fulgido esempio per i colleghi.
Questa roba va stroncata. Le motivazioni sono funzionali all’atto giudiziario e alle sentenze, servendo a tutela del cittadino che ne è colpito, talché possa ricorrere e vederli annullati. Non sono un modo per portare al rogo la sua presunta personalità, i suoi pensieri, i suoi desideri. Il rimedio sarebbe dovuta essere la cassazione. Basta leggerne molti atti per rendersi conto che i presunti medici sono portatori del medesimo morbo. Alla fine è proprio la Costituzione a uscirne massacrata: gli atti non sono solo arbitrari, ma già che ci sono divengono anche offensivi. Questa roba va stroncata.
Leggete quel che si trova scritto in un atto, destinato all’applicazione degli arresti domiciliari, nel mentre il cittadino (costituzionalmente innocente) si trova ancora in galera: “ha iniziato a prendere coscienza dei danni causati e, nonostante l"inizio di tale percorso di ripensamento della propria condotta non sia ancora approdato ad una conclamata resipiscenza …”. Ma chi crede di essere, l’estensore di queste righe? Forse avrebbero potuto prenderlo alla santa inquisizione, benché lì la selezione fosse più severa e si richiedeva anche maggiore proprietà di linguaggio. Nessuna sentenza, mai, può porsi il tema della “conclamata resipiscienza”. Questo caso (molto noto, ma è del tutto ininfluente il cittadino cui si riferisce) non è affatto isolato, dilagando l’abitudine di mettere nelle motivazioni degli atti considerazioni del tutto estranee al mondo della legge e del diritto.
Conosco l’obiezione polemica: allora aboliamo le motivazioni, previste dalla Costituzione. L’idea che non solo le sentenze, ma tutti gli atti giudiziari e tutti i provvedimenti limitativi di quale che sia libertà personale, debbano essere “motivati” ha un senso preciso: non possono essere arbitrari. Motivare significa esplicitare in base a quale legge si ritiene di procedere in quel modo. Tanto che, nella Costituzione, lo si prevede quale premessa del possibile ricorso avverso il provvedimento: tu mi dici in base a quel circostanza e legge mi sequestri dei beni, o mi apri la posta e io ricorro spiegando perché ti sei sbagliato e sto subendo un’ingiustizia. La Costituzione (articolo 111) prevede anche che siano motivate le sentenze. In altri sistemi questo non è necessario. Negli Usa, ad esempio, è escluso: colpevole o innocente. Punto. E’ la logica conseguenza dell’accusatorio puro (il nostro è bastardo assai). Anche in questo caso, però, l’obbligo di motivare si lega al diritto di ricorrere. Della serie: ti abbiamo considerato colpevole di omicidio perché il morto è stato ammazzato a coltellate e sul coltello c’erano le impronte della tua mano destra. Ricorso: i giudici hanno preso un granchio, perché sono monco della mano destra. Serve a questo e così devono essere scritte.
Invece si scorrazza, per centinaia di pagine, nel sociologismo per nullatenenti culturali, nel psicologismo per freudiani affetti da turbe della personalità, nell’intimismo sentimentale per anoressici che mai divorerebbero un codice. E queste pagine di ridicola drammaturgia finiscono poi nelle mani di un’altra categoria ove l’analfabetismo è preludio di compitazione: i giornalisti. Da qui parte il rimbalzo del copia e incolla, non a caso due attività manuali. E gli stessi cui mai un editore avrebbe pubblicato le stucchevoli poesie (se non a spese del poeta togato), si ritrovano sulle prime pagine, in un lirico delirio d’onnipotenza. Da qui svolgono il più diseducativo dei ruoli: fulgido esempio per i colleghi.
Questa roba va stroncata. Le motivazioni sono funzionali all’atto giudiziario e alle sentenze, servendo a tutela del cittadino che ne è colpito, talché possa ricorrere e vederli annullati. Non sono un modo per portare al rogo la sua presunta personalità, i suoi pensieri, i suoi desideri. Il rimedio sarebbe dovuta essere la cassazione. Basta leggerne molti atti per rendersi conto che i presunti medici sono portatori del medesimo morbo. Alla fine è proprio la Costituzione a uscirne massacrata: gli atti non sono solo arbitrari, ma già che ci sono divengono anche offensivi. Questa roba va stroncata.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.