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La relazione all’assemblea di Bankitalia

Fazio, il declino e le imprese

Il Governatore continua a denunciare la crisi economica. Ma stavolta ne incolpa l’industria

di Enrico Cisnetto - 01 giugno 2005

Poteva un precursore della denuncia della condizione di declino dell’economia italiana come Antonio Fazio, dirci che va tutto bene proprio mentre siamo in piena recessione? Chi si aspettava un governatore della Banca d’Italia “ottimista”, magari per evitare conflitti con il governo quando sono in corso “guerre per banche” senza esclusione di colpi, ha sbagliato previsione. Seppur con qualche aggettivo di meno del solito, ancora una volta Fazio, facendo parlare i numeri, ha delineato il quadro di crisi strutturale che azzoppa l’Italia: crescita zero, produttività e competitività ai minimi, deindustrializzazione, conti pubblici fuori controllo. Con una differenza, però, rispetto alle assemblee di Bankitalia degli anni scorsi: invece che il governo, sul banco degli accusati oggi ci sono le imprese. Quasi a voler rispondere agli attacchi che al sistema bancario e alla stessa banca centrale erano venuti dalla recente assise di Confindustria. Insomma, “dalle imprese alle banche, dalle banche alle imprese”, i grandi interessi sembrano ancora vittime della cattiva abitudine di intentare processi alle responsabilità (altrui) più che guardare alle cose da fare, continuando a rimpallarsi le colpe della recessione. Nulla di più sbagliato, se si considera che pre-condizione per uscire dal declino è proprio quella di ritrovare coesione, tornando a stringere un patto sociale. Tutte cose che richiedono serenità e voglia di futuro.

I problemi che abbiamo di fronte sono tutti racchiusi nelle cifre snocciolate dal Governatore. Provo a riassumerli, partendo dal pil. Negli ultimi cinque anni la crescita è stata dello “zero virgola”, inferiore a quella di Eurolandia e ancor di più a quella degli Usa. Questa stagnazione permanente è figlia sia della stasi dei consumi interni, sia soprattutto della caduta dell’export, per colpa della quale siamo passati da una quota sul mercato mondiale del 4,6% del 1995 al 3,5% nel 2000 e al 2,9% nel 2004. A sua volta la produzione industriale è scesa di oltre cinque punti dal 2000 (continua a calare anche quest’anno), mentre negli altri paesi dell’euro è aumentata di quattro punti. Ma sono le caratteristiche del nostro capitalismo a preoccupare di più: dimensione microscopica (anche escludendo le aziende individuali, il 99% delle imprese ha meno di 50 dipendenti); concentrazione nei settori a basso contenuto tecnologico (appena il 7% di occupati nei settori hi-tech); scarsa internazionalizzazione (solo 1450 sono le imprese con rilevanti attività in altri paesi); insufficienti investimenti in ricerca e sviluppo (1,1% del pil, in Europa è il doppio, ancor di più negli Usa e quasi il triplo in Giappone).

In questo quadro, non possono certo tornare i conti (pubblici): il rapporto deficit-pil a fine anno sarà del 4%. Ciò deriva non solo dalla mancata crescita del reddito, ma anche dall’aumento della spesa corrente, che dopo la brusca flessione nella seconda metà degli anni Novanta (dal 4,2% all’1,2%) è tornata a salire al 2,4%.

Quanto alle ricette, Fazio ripete quelle degli anni scorsi. Una su tutte, metodologica, viene però prima di qualunque altra: un patto tra la politica, le istituzioni, l’amministrazione pubblica e le forze sociali che le faccia convergere su alcuni obiettivi prioritari. Sarebbe, questo, l’unico modo per ridare fiducia al Paese. E’ la stessa strada indicata da Montezemolo. Ce ne sono le condizioni? Per il capo della Confindustria il nodo è tutto nel sistema politico. Per Fazio molto dipende dalle imprese. Il sindacato, ancora una volta diviso come dimostra il tormentato iter del rinnovo del contratto del pubblico impiego, non si fida di una ripresa del dialogo tra i corpi intermedi e il governo dopo la scottatura del “Patto per l’Italia”. Insomma, ora che il declino è una realtà ammessa da tutti – salvo qualche imbecille – e che su diagnosi e terapie comincia a profilarsi una larga convergenza di vedute, il vero problema diventa il clima di fiducia e disponibilità tra le grandi forze, politiche e sociali, indispensabile per creare il consenso necessario ad un “grande patto” per salvare il Paese.

Un “assaggio” di questo spirito ricostruttivo è indispensabile che venga dalle banche. In un “capitalismo bancocentrico” come il nostro, gli assetti proprietari degli istituti di credito sono una delle questioni decisive del Paese. Finora la nostra classe dirigente – politica, economica, istituzionale – o ha sottovalutato il problema, o ancor peggio ha preferito affrontarlo di volta in volta, sotto la spinta degli interessi in gioco. Invece di sedersi intorno ad un tavolo e ragionare per tempo su come affrontare il nodo delle dimensioni, della proprietà e del ruolo delle banche, si è aspettato che si scatenassero vere e proprie guerre su Bnl e Antonveneta, che (ahinoi) rischiano di essere risolte dalla magistratura. Con conseguenze pesanti, se è vero che ieri il Governatore ha sentito il bisogno di sottolineare l’indipendenza e la trasparenza della Banca d’Italia nelle sue funzioni di vigilanza e controllo e se un banchiere di lungo corso come Bazoli ha ritenuto di dover ricordare come sia responsabilità di tutti conservare il patrimonio di reputazione, correttezza e probità della nostra banca centrale.

Pubblicato sul Gazzettino e sulla Sicilia del 1 giugno 2005

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