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La scarsa importanza che si dà agli Esteri

Farnesina: un ministero fuori mano

La politica internazionale italiana dimenticata da questa violenta campagna elettorale

di Antonio Picasso - 18 gennaio 2006

“Guida alla politica estera italiana” di Sergio Romano è un libro che ha ormai tre anni. In un mondo globale, in cui le notizie circolano alla velocità telematica e i fatti si accavallano l’uno con l’altro, tre anni sono tanti. Il testo, allora, per quanto un classico della materia, potrebbe essere considerato antiquato. Invece no. L’analisi dell’ex ambasciatore riesce a essere perfettamente attuale e in linea con quello che la politica estera italiana sta producendo oggi. Ma questo non è solo da attribuire alle capacità analitiche dell’editorialista del Corriere della sera, bensì allo scenario che la nostra diplomazia propone. Perché, a neanche tre mesi dalle elezioni, né il centro-destra né il centro-sinistra hanno ancora definito un programma di governo di politica estera. Non solo, negli ultimi quindici anni circa, dello stesso comparto governativo, si può stilare un triste bilancio. È dal primo governo Amato del 1993 che, alla guida della Farnesina, non abbiamo un politico di razza. Allora l’incarico fu assunto da Emilio Colombo. A succedergli furono: Beniamino Andreatta, Antonio Martino, Susanna Agnelli, Lamberto Dini, Renato Ruggiero, Franco Frattini e oggi Granfranco Fini. A parte quest’ultimo, il quale comunque non è riuscito a “personalizzare” la linea del ministero che gli è stato affidato, l’Italia all’estero è sempre stata rappresentata da illustri personaggi ed esponenti dell’establishment nazionale. Docenti universitari, diplomatici e manager, tutte figure di alta caratura, le cui competenze nessuno ha mai messo in discussione. Tuttavia, nessuno di loro è stato un politico effettivo. Ciò ha comportato, per il Paese, un’attività internazionale alternativa. Come dice appunto Romano, organizzazioni non governative, ma comunque influenti nel mondo, per esempio la comunità di Sant’Egidio, personalità carismatiche della nostra classe dirigente, quali Gianni Agnelli, e preparatissimi diplomatici si sono dovuti impegnare – e ingegnare, viste le cadute di stile dei nostri politici – per esportare un’immagine nitida e positiva presso i governi stranieri.
Per la classe politica propriamente detta, la Farnesina ha assunto la veste di ministero di prestigio, ma ininfluente. Dietro lo stadio Olimpico, lontano dal centro, quel palazzone fascista si è reso utile per piazzare qualcuno che merita un incarico di governo davvero importante, ma che è anche necessario emarginare.
Di conseguenza, nessuna delle due coalizioni si è sentita in dovere di elaborare un progetto per l’Italia nel mondo. Sì certo, entrambe si sono espresse in merito alla guerra in Iraq: ritiro, exit strategy e piena democratizzazione del Paese. Entrambi hanno anche speso qualche parola sull’Europa, sull’alleanza atlantica e sulla Cina. Ma tutte queste attività restano visibilmente interventi di circostanza. Uno scenario, un’agenda, delle coordinate che facciano capire la linea di politica estera del prossimo governo – di qualunque coalizione esso sarà – non esiste.
A tre mesi dalle elezioni, l’Italia sta vivendo una campagna elettorale sanguinosa e orrendamente avvelenata. Questo l’ha distolta – era naturale che andasse così – totalmente dal problema delle proprie attività e delle sue responsabilità nel mondo. Ma intanto si aspetta di vedere chi verrà parcheggiato lontano dai riflettori, dietro l’Olimpico.

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