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Ripresa dell'economia

False aspettative

Fino a che punto possiamo e dobbiamo credere ai timidi segnali di inversione di tendenza

di Enrico Cisnetto - 02 agosto 2013

C’è o non c’è? L’idea che la ripresa sia dietro l’angolo, o addirittura sia già in atto, sta diventando di moda, ma appare suffragata più dalla speranza e dalla convinzione che prima o poi questa maledetta recessione dovrà pur finire – a fine anno saranno 10 i punti di pil andati in fumo – che non dai dati di fatto, i quali sono basati su segnali debolissimi e perfino contraddittori. A meno che per ripresa non s’intenda un rallentamento, prima parziale e poi totale, della caduta recessiva, e allora sì, è possibile che a questo si arrivi a cavallo dell’anno.

Se invece s’intende, come sarebbe corretto che fosse, un ritorno, anche minimo, alla crescita, beh allora in questo caso siamo ancora nel campo delle belle speranze. Intendiamoci, visto che l’economia è fatta anche e soprattutto di aspettative, e che la psicologia negativa in questa fase non aiuta a scrollarsi di dosso la recessione, il fatto che s’inneschi un po’ di ottimismo non fa per nulla male. Dipende, però, chi, come e perché spende il verbo della ripresa. Se, come finora è stato, a parlare sono i politici e i ministri, allora il rischio è che gli italiani non ci credano, anzi che considerano quella profusione di ottimismo come un modo per abbindolarli, una foglia di fico messa a coprire la mancanza di politica economica. E allora, paradossalmente, il rischio che si corre è che anche i piccoli, veri, focolai di inversione di tendenza vengano spenti sul nascere.

D’altra parte, se Bankitalia si limita a dire che si nota “un’attenuazione della debolezza ciclica” (tradotto: andiamo sempre male, ma meno di prima), mentre Confindustria parla un pochino più ottimisticamente di “ripresa in vista, ma a passo lento”, vuol dire che non è bene farsi troppe illusioni. Ma, soprattutto, che non è lecito dimenticarsi che l’Italia vive un clima di sfiducia generalizzato, che l’emorragia delle imprese in difficoltà non accenna ad attenuarsi, complice anche il perdurare del credit crunch, e che la pressione fiscale, accompagnata da una crescente criminalizzazione degli imprenditori e in generale della ricchezza, blocca gli investimenti e i consumi anche laddove ce ne sarebbero le condizioni.

Ma vediamo su cosa si basano, queste speranze di ripresa. L’elemento più gettonato è l’inversione di tendenza che si è registrata a maggio e giugno nell’apertura di nuovi negozi, con un saldo positivo rispetto a quelli chiusi. Ora, è ovvio che sia meglio questa tendenza del suo contrario, ma da qui a prenderla a conforto ce ne passa. In molti casi, infatti, si tratta più che altro del disperato tentativo di persone rimaste disoccupate – specie quelle over 40 e 50 – di trovare il modo di campare avviando una qualche attività commerciale, spesso con esito modesto. Diverso, più consistente e concreto, è il miglioramento che a giugno si è registrato nella produzione industriale, negli ordini delle imprese (il dato destagionalizzato dell’indice è cresciuto a maggio per il terzo mese consecutivo, con un guadagno cumulato del 5,9% rispetto ai minimi di febbraio) e nell’export. Pur compensato da un ulteriore calo dei consumi e del numero degli occupati (in un anno sono quasi 400 mila unità in meno), è il segno che qualcosa si muove. Specie sul fronte delle esportazioni, aiutate dal buon andamento dell’economia americana, dalla forte ripresa (anche se con timori di bolla) di quella giapponese e dalla fondata convinzione che il rallentamento dei Brics non inficia l’apporto che le economie emergenti daranno al pil mondiale, visto che altri paesi (e quindi altre sigle) sono pronti a dare il cambio a quelle asiatiche e sudamericane che fin qui hanno fatto da locomotiva. Questo, però, ci dice che se ripresa, o almeno inversione di tendenza, ci sarà, essa sarà quasi esclusivamente basata sull’export, e quindi tenderà ad accentuare ancora di più un fenomeno di cui, per ignoranza e pudicizia, si parla troppo poco: la spaccatura netta tra imprese proiettate sui mercati internazionali – che ce l’hanno fatta e che ce la faranno – e imprese tutte schiacciate sul mercato interno, che in molti casi sono destinate a soccombere, anche perché pur in piccola ripresa, gli ordinativi nazionali restano inferiori del 35% rispetto ai valori pre-crisi (ante 2008). Con una conseguenza evidente, visto che spesso all’internazionalizzazione si accompagna la delocalizzazione produttiva: che quella trainata dall’export sarà una ripresa senza occupazione. Con tutto quello che ne consegue sul piano sociale.

Ma se attrezzarsi per cogliere la domanda estera è fatto che riguarda le imprese e non la politica, viceversa sul fronte dello stimolo alla domanda interna molto si può fare e poco o niente è stato fin qui fatto dal governo. I nodi sono sempre quelli: saldare in fretta i debiti delle pubbliche amministrazioni, ricondurre il credito alle aziende offrendo garanzie sui prestiti bancari deteriorati, tagliare 6-7 punti di spesa pubblica da destinare a un drastico taglio delle imposte su imprese e lavoro. Ma qui torna in ballo la questione di fondo: il sistema politico e quello istituzionale saranno finalmente capaci di produrre governo, anziché indecisionismo come finora è stato?

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.