ultimora
Public Policy

Serve un nuovo slancio politico ed economico

Europa e futuro

Il declino non è solo italiano, ma europeo. Ma il nostro destino è nelle nostre mani

di Alessandra Servidori - 23 giugno 2005

Competizione globale, aggressività degli attori emergenti, deficit di competitività. Basta guardarsi attorno per verificare quanto il problema del declino - che a torto alcuni reputano peculiare alla situazione italiana - sia dominante anche negli altri Paesi, Francia e Germania in testa. Nello scenario mondiale pesa sicuramente più un’Europa debole nel suo complesso che la centralità delle rispettive economie e dunque un giusto equilibrio tra i problemi nazionali e la situazione della Comunità deve vivere parallelamente anche perché fino a poco tempo fa Italia, Francia e Germania erano considerati grandi Paesi in un mondo piccolo, membri del G7 dalla prima ora, fondatori dell’Europa dalla quale erano escluse le tigri russe, cinesi, indiane e trattavano con gli Stati Uniti, ora la situazione, come è evidente, è cambiata e alzate di testa e di toni non sono possibili. L’unico modo per superare i problemi è ragionare e muoversi in termini di Unione europea, compiendo anche una svolta sul piano delle scelte di politica economica e sociale sapendo che siamo Paesi di media dimensione e che altri come quelli del nord Europa, di piccole dimensioni, come per esempio l’Olanda e la Scandinavia, hanno una chiara ed identificabile vocazione con strutture sociali ed industriali lucide e soprattutto sane. Londra per esempio vent’anni fa ha fatto una scelta molto forte della quale continua a beneficiare ridimensionando l’industria manifatturiera e diventando un polo finanziario di eccellenza nel mondo. Il destino dell’Italia dunque è nelle nostre mani, che non possono chiudersi in un pugno protezionista, non prescinde dal contesto comunitario, ma ne è una gamba fondamentale. Non ci appassionano le analisi dei drammi e ci sentiamo più propensi a suggerire le soluzioni.
Così almeno su tre fronti è bene essere sufficientemente chiari. Sulla Bce, sull’Italia del lavoro e sul diritto comunitario, è opinione di chi scrive che possiamo alzare la testa e raddrizzare la schiena. In materia di congiuntura internazionale, sul taglio dei tassi è bene avere delle consapevolezze, infatti anche se la Bce non allenta ci pensano i cambi: è così che il mercato valutario e obbligazionario si sta comportando. Il calo dell’euro infatti è un grande sollievo: la flessione del cambio effettivo è stata – calcolata su più valute – del 7, 5% da inizio anno, e si sta riducendo un fattore di costo per tutte le aziende esportatrici – nonostante salga il prezzo del petrolio – e questo corrisponde ad un taglio del costo del danaro. L’euro poi non è solo ad agire: ci sono i rendimenti di mercato, e le condizioni monetarie complessive si sono allentate. Il cambio effettivo si è deprezzato a causa della rinnovata forza del dollaro e questa corsa alla moneta americana è stata accompagnata da un forte calo dei tassi a breve e a lungo termine. Ora il nostro indice è di molto superiore alla media del lungo periodo così come è alta, in termini storici, la distanza tra l’indice e la crescita del pil.
Sul versante del lavoro è urgente agire su una organizzazione sociale diversa che deve accompagnare il cambiamento. Il lavoro si sta riequilibrando su regole nuove e le resistenze non fanno bene né ai lavoratori né alle imprese. Il trend dell’occupazione vede tra luglio e settembre il 9% degli imprenditori intenzionato ad assumere nel prossimo trimestre, il 6,5% a diminuire il proprio organico e la maggior parte a non volere alterare il numero di addetti. Per l’Italia l’indice di previsione netta sull’occupazione è quindi del 3%, stabile per il secondo trimestre consecutivo, minore di due punti percentuali rispetto allo stesso periodo del 2004 e con forti variazioni a livello geografico e di settore. C’è un ottimismo moderato nell’area del nord-est (+8%) e nel comparto ristorazione e alberghi (+18%), stabilità nei trasporti (+14%), mentre scendono servizi e commercio e centro e nord-ovest tornano a formulare previsioni negative. E intanto nella maggior parte dei Paesi europei le imprese esprimono una propensione a creare nuovi posti di lavoro più alta rispetto allo scorso trimestre e in Asia e soprattutto in America prevale l’ottimismo. Dunque sulla legge Biagi che ha irrobustito una stagione di flessibilità bisognerà lavorare tanto perché la flessibilità di prima generazione introdotta dal pacchetto Treu e approfondita dalla legge Biagi porti direttamente ad una terza stagione di strumenti che sarà il mercato a scegliere e non la pregiudiziale ideologica di una sinistra anti-riformista. Il mercato infatti sta già decidendo quali sono le tipologie contrattuali che si usano poco, molto, mai. Deve innescarsi un circolo virtuoso che faccia capire che la flessibilità non è solo precariato e atipicità e le aziende ne hanno bisogno perché è il mercato a chiederla. Non torneranno più gli anni del boom economico e bisogna investire in risorse umane per essere competitivi e dunque fare più assunzioni, ma non in base ad una organizzazione sul posto fisso che non c’è più. Serve coraggio dunque per accompagnare il dinamismo e gli stili di vita e di lavoro flessibili. I nuovi lavori sono creati nell’economia della conoscenza e da organizzazioni reticolari in un mondo che non ha confini economici. La sfida europea è la formazione aggiornata, l’e-learning, le agenzie formative, prassi contrattuali innovative, e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro deve avere ambiti territoriali ed internazionali straordinariamente dinamici e interattivi. E proprio sul Diritto comunitario l’Italia ha delle eccellenze da spendere, anche sulla scia dell’insegnamento che Marco Biagi ci ha lasciato e che ci indica nella comparazione tra Stati la forza della competizione. Occorre infatti una forte unità a livello istituzionale, negli Stati europei, per evitare l’instaurarsi di un predominio dei diritti e delle legislazioni varie e dunque degli studi legali inglesi e americani e del diritto anglosassone, e prima ancora delle imprese americane. Non è facile perché chi domina è l’economia e la storia ci insegna che quando ad esempio l’Inghilterra aveva colonie nei vari continenti, via via vi imponeva il diritto. Noi abbiamo una tradizione giuridica che purtroppo negli ultimi anni non ha trovato conferma, mentre la tradizione tedesca soprattutto nel diritto civile, costituisce un modello per l’Europa e spinge molti civilisti a studiare in quel Paese. Molte direttive europee, come quella del 1976 sulle clausole abusive dei contratti si è rifatta alla legge tedesca.
Dunque bisogna e in fretta armonizzare il diritto europeo sapendo che molti modelli giuslavoristi italiani sono stati importati e il modello della flessibilità contrattuale e sociale dominante farà la differenza sul piano dell’innovazione, dello sviluppo e della competitività. Così come fa già la differenza nel sistema economico avere sistemi finanziari che si appoggiano a legislazioni robuste e in questo l’Italia, rispetto all’Europa e al mondo, si muove con troppa lentezza. Con mezzi finanziari adeguati infatti le imprese straniere hanno conquistato consistenti quote di mercato in Italia poiché consentiamo agli investitori stranieri di fare shopping. Non è un fatto negativo in senso assoluto poiché poi gli stranieri portano lavoro e denaro, ma è fondamentale che anche le imprese italiane avendone i mezzi finanziari, trovassero aperti gli altri Paesi europei e soprattutto il popolo italiano assumesse una volta per tutte la cultura della flessibilità e della adattabilità come fattore fondamentale per stare al passo con il mondo che cambia.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.