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Public Policy

Il "fiscal compact"

Europa da Guinness

Nel nuovo trattato europeo solo il popolo irlandese è chiamato alle urne

di Davide Giacalone - 04 marzo 2012

Il “fiscal compact”, il nuovo trattato europeo, non è un passo avanti verso l’unione politica, ma verso il suo divorzio dalla democrazia. Non è una conquista degli europeisti (fra i quali mi metto), ma un buon concime per le tante forze anti-europeiste che s’aggirano e che sorgeranno per il continente. La spoliazione della sovranità nazionale avviene senza alcuna compensazione di sovranità democratica, bensì attraverso una doppia resa: ai parametri numerici, privi di legittimità culturale, e ai giudici della Corte di Giustizia. L’unione sta finendo peggio di quel che paventammo per l’Italia, il potere giudiziario non solo prevale sulla politica, ma amministra direttamente la fiscalità e il bilancio. Un incubo. In un solo Paese il popolo sarà chiamato a dire che ne pensa: l’Irlanda. Almeno lì sarà un’Europa da Guinness, ma non nel senso dei primati, bensì della birra.

Quando i popoli di Francia e Olanda furono chiamati a pronunciarsi sulla Costituzione europea la bocciarono, facendola sparire dalla circolazione. Ora che si approntano vincoli assai più stringenti, che influiranno pesantemente sulla vita quotidiana dei cittadini europei, nessuno sarà sentito, nessuno chiamato alle urne. Tranne gli irlandesi, appunto. Siccome alle urne si tornerà, perché le nostre democrazie sono state smidollate, ma non abolite, alla loro apertura avremo la pessima (non) sorpresa di vedere germogliare l’antagonismo contro l’Europa. Quello che era un disegno di libertà e progresso cercherà di sopravvivere sotto forma di ricatto: provate a ribellarvi, provate a uscire e sarete massacrati dai mercati finanziari. Dapprima ne faranno le spese le classi politiche nazionali (che sarebbe meglio definire: dialettali), poi sarà colpita l’Unione. I qualunquisti europei diranno: finalmente si toglie l’arma della spesa pubblica dalle mani dei politicanti, che la usano per farsi rieleggere. Poi ci si accorgerà che quella spesa (i cui mali denunciamo continuamente) è parte stessa di una sovranità che s’incarna nel patto sociale. A quel punto la reazione sarà cieca.

Dicono gli ottimisti che, grazie al fiscal compact, si apre la via alla federalizzazione dei debiti nazionali. Ma quello è un rimedio se comporta la federalizzazione della politica. Auspicabile. Mentre l’uso di quello strumento in un’Europa parametrizzata e giudiziarizzata equivarrà all’annessione operata da un potere non delegato, falsamente tecnocratico, sostanzialmente irresponsabile. Un potere che usa il discredito della politica per mascherare i propri errori: nel 2007, quando è iniziata la crisi dei debiti sovrani, il nostro equivaleva al 103,9% del prodotto interno, oggi, dopo cure da cavallo, fatte con le manovre fiscali (prevalentemente in capo al governo Berlusconi e solo da ultimo di quello Monti) equivale al 120,1. Un capolavoro dovuto alla recessione, che quelle manovre hanno aggravato. Dobbiamo gioire e complimentarci? Firmando il nuovo trattato Spagna e Olanda hanno già annunciato che lo violeranno. La Francia dovrà soffrire per rispettarlo. Noi lo pagheremo nel tempo. Tutti cresceranno meno o recederanno.

Mariano Rajoy ha detto che la fissazione del deficit è una “decisione sovrana che spetta alla Spagna”. Contiamo di vederlo a Dublino, nel far campagna contro il trattato, visto che quella sovranità l’ha persa firmando. Il guaio è che quella bocciatura sarebbe un ulteriore danno, facendo ripartire la speculazione appena raffreddata dai mille miliardi della Bce. Morale: piegandosi ai voleri del governo tedesco gli altri europei hanno riportato indietro il calendario di venti anni, al 1992, quando a Helmut Kohl non fu concesso di fare dell’Europa una grande Germania. Lui capì e disse: a noi interessa la Germania in Europa, non un’Europa germanizzata. Quel compromesso diede ottimi frutti, sebbene creando, nel tempo, il dramma di una moneta senza governo. Quello di venerdì scorso, a Bruxelles, non è un compromesso è una resa. Che nuoce all’Europa, ma prima ancora alla democrazia.

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