Lo scudo fiscal si ha da fare
Euroburocrazia
La ricetta proposta da Tremonti va sostenuta dal Governo e dalle fila dell’opposizionedi Enrico Cisnetto - 08 maggio 2009
Lo scudo fiscal si ha da fare, con o senza Europa. Certo nessuno poteva ragionevolmente sperare che le novità in materia di “paradisi fiscali”, e le conseguenti misure di rientro dei capitali, annunciate nel già storico G20 di Londra trovassero veloce ed efficace applicazione da parte della lenta e farraginosa Unione Europea.
La gestione della crisi finanziaria ha fin troppo chiaramente dimostrato che nemmeno un’emergenza straordinaria riesce a indurre Bruxelles e il concerto dei governi europei a trovare la concordia necessaria per prendere misure unitarie e collettive. Eppure, quanto finora è arrivato dalla capitale dell’euroburocrazia è inferiore anche alle attese più minimaliste. Pensiamo ai tre capisaldi del vertice londinese: compensi a banchieri e manager, paletti ai fondi speculativi e, appunto, censura dei paradisi fiscali.
Sul primo punto il commissario McCreevy aveva annunciato con la solita grandeur: “Siamo stati i primi a muoverci”. Risultato effettivo: le misure in tema di bonus, stock option, tetti alle liquidazioni, sono state incluse non in una direttiva bensì in una misera raccomandazione che, come noto, non impegna nessuno. Sui fondi speculativi, Bruxelles si è mossa con l’agilità di un ottantenne sulla sedia a rotelle.
Abbiamo sì una direttiva che obbliga hedge funds & affini a registrarsi, a comunicare alle varie authority le proprie performance, i profili di rischio eccetera. Ma con un’esenzione per hedge funds e private equity che rientrino in una capitalizzazione rispettivamente di 100 e 500 milioni di euro: un compromesso al ribasso (eufemismo dettato per carità di Europa), che tra l’altro – paradossalmente – potrebbe procurare razzie offshore nel Vecchio Continente.
Quanto ai paradisi fiscali, a parte le risse in sede Ecofin di questi giorni, il tema è rimasto lettera morta: peccato, perché era il punto su cui il G20 era stato più successful, riuscendo a trovare una sintesi efficace tra due diverse esigenze, quella di chi chiedeva “più regole” e quella di chi voleva “più soldi”. Ad oggi, a parte le diatribe su liste nere, grigie e altre sfumature cromatiche, nulla di fatto.
Doppio peccato, perché anche sul tema fiscale un’operazione su scala europea, come aveva giustamente proposto il ministro Tremonti, sarebbe stata più congrua e più in linea con l’introduzione di quel “legal standard” che non può certo essere applicato soltanto su base nazionale.
Adesso però Tremonti, preso atto dell’ennesima impasse dei suoi colleghi europei, è ritornato su questo punto, con una road map che non è un semplice revival delle precedenti esperienze di scudo fiscale degli ultimi anni, ma al contrario è un impianto molto più complesso e potenzialmente efficace, che da una parte prevede un inasprimento delle sanzioni, l’inversione dell’onere della prova per chi detiene capitali all’estero e una “black list” italiana dei paesi offshore che non collaborano, mentre dall’altra, fissa la possibilità di rientro con una multa molto più alta che in passato (il 7% contro il 2,5%) e adeguate tutele di anonimato.
E’ un’operazione culturalmente simile a quella messa in atto negli anni Settanta, quando, in uno scenario di crisi economica e di fughe di capitali diffuse, si arrivò, con un’iniziativa largamente bipartisan, a introdurre la famosa Legge 159, che trasformava l’esportazione di capitali da reato amministrativo a reato penale e al contempo lanciava una sanatoria straordinaria per il rientro di denaro che diversamente sarebbe diventato “corpo di reato”.
Stesso lo schema giuridico: da una parte le sanzioni, dall’altra la possibilità di sanare un abuso. Quello che cambia, oggi, è la portata di un provvedimento del genere: stimabile in un centinaio di miliardi, cifra che però assume un peso specifico molto maggiore alla luce della crisi e delle voci di spesa straordinarie che il Paese sta affrontando.
Non so se siano vere le criticità che riguarderebbero le risorse destinate alla ricostruzione dell’Abruzzo, ma se anche così non fosse, è evidente che in questa fase recessiva una grande operazione di rientro andrebbe valutata in base al circolo virtuoso delle sue ricadute in termini di redditi, investimenti e consumi. Elementi di cui c’è bisogno come il pane. E’ una ricetta efficace, dunque, quella proposta da Tremonti, che va sostenuta dentro il Governo e dalle fila dell’opposizione (se ancora c’è qualcuno che ragiona).
Oltretutto, ha il vantaggio di essere culturalmente limpida, perché priva di quei caratteri punitivi o ideologicamente ambigui di altre esperienze, tipo il piano della Casa Bianca contro il “fisco delle multinazionali”, che pare più che altro un retaggio sessantottardo. Detto questo, è chiaro che ben altro respiro avrebbe avuto una linea comune europea. Ma, tra effettive difficoltà tecniche – l’abolizione del segreto bancario richiede l’unanimità dei 27 – e le solite inanità esasperanti, se vogliamo essere realisti, ha ragione Tremonti: per come si è mossa l’Ue fino ad oggi nei confronti della crisi, meglio ognuno per sé, e Bruxelles (forse) per tutti.
La gestione della crisi finanziaria ha fin troppo chiaramente dimostrato che nemmeno un’emergenza straordinaria riesce a indurre Bruxelles e il concerto dei governi europei a trovare la concordia necessaria per prendere misure unitarie e collettive. Eppure, quanto finora è arrivato dalla capitale dell’euroburocrazia è inferiore anche alle attese più minimaliste. Pensiamo ai tre capisaldi del vertice londinese: compensi a banchieri e manager, paletti ai fondi speculativi e, appunto, censura dei paradisi fiscali.
Sul primo punto il commissario McCreevy aveva annunciato con la solita grandeur: “Siamo stati i primi a muoverci”. Risultato effettivo: le misure in tema di bonus, stock option, tetti alle liquidazioni, sono state incluse non in una direttiva bensì in una misera raccomandazione che, come noto, non impegna nessuno. Sui fondi speculativi, Bruxelles si è mossa con l’agilità di un ottantenne sulla sedia a rotelle.
Abbiamo sì una direttiva che obbliga hedge funds & affini a registrarsi, a comunicare alle varie authority le proprie performance, i profili di rischio eccetera. Ma con un’esenzione per hedge funds e private equity che rientrino in una capitalizzazione rispettivamente di 100 e 500 milioni di euro: un compromesso al ribasso (eufemismo dettato per carità di Europa), che tra l’altro – paradossalmente – potrebbe procurare razzie offshore nel Vecchio Continente.
Quanto ai paradisi fiscali, a parte le risse in sede Ecofin di questi giorni, il tema è rimasto lettera morta: peccato, perché era il punto su cui il G20 era stato più successful, riuscendo a trovare una sintesi efficace tra due diverse esigenze, quella di chi chiedeva “più regole” e quella di chi voleva “più soldi”. Ad oggi, a parte le diatribe su liste nere, grigie e altre sfumature cromatiche, nulla di fatto.
Doppio peccato, perché anche sul tema fiscale un’operazione su scala europea, come aveva giustamente proposto il ministro Tremonti, sarebbe stata più congrua e più in linea con l’introduzione di quel “legal standard” che non può certo essere applicato soltanto su base nazionale.
Adesso però Tremonti, preso atto dell’ennesima impasse dei suoi colleghi europei, è ritornato su questo punto, con una road map che non è un semplice revival delle precedenti esperienze di scudo fiscale degli ultimi anni, ma al contrario è un impianto molto più complesso e potenzialmente efficace, che da una parte prevede un inasprimento delle sanzioni, l’inversione dell’onere della prova per chi detiene capitali all’estero e una “black list” italiana dei paesi offshore che non collaborano, mentre dall’altra, fissa la possibilità di rientro con una multa molto più alta che in passato (il 7% contro il 2,5%) e adeguate tutele di anonimato.
E’ un’operazione culturalmente simile a quella messa in atto negli anni Settanta, quando, in uno scenario di crisi economica e di fughe di capitali diffuse, si arrivò, con un’iniziativa largamente bipartisan, a introdurre la famosa Legge 159, che trasformava l’esportazione di capitali da reato amministrativo a reato penale e al contempo lanciava una sanatoria straordinaria per il rientro di denaro che diversamente sarebbe diventato “corpo di reato”.
Stesso lo schema giuridico: da una parte le sanzioni, dall’altra la possibilità di sanare un abuso. Quello che cambia, oggi, è la portata di un provvedimento del genere: stimabile in un centinaio di miliardi, cifra che però assume un peso specifico molto maggiore alla luce della crisi e delle voci di spesa straordinarie che il Paese sta affrontando.
Non so se siano vere le criticità che riguarderebbero le risorse destinate alla ricostruzione dell’Abruzzo, ma se anche così non fosse, è evidente che in questa fase recessiva una grande operazione di rientro andrebbe valutata in base al circolo virtuoso delle sue ricadute in termini di redditi, investimenti e consumi. Elementi di cui c’è bisogno come il pane. E’ una ricetta efficace, dunque, quella proposta da Tremonti, che va sostenuta dentro il Governo e dalle fila dell’opposizione (se ancora c’è qualcuno che ragiona).
Oltretutto, ha il vantaggio di essere culturalmente limpida, perché priva di quei caratteri punitivi o ideologicamente ambigui di altre esperienze, tipo il piano della Casa Bianca contro il “fisco delle multinazionali”, che pare più che altro un retaggio sessantottardo. Detto questo, è chiaro che ben altro respiro avrebbe avuto una linea comune europea. Ma, tra effettive difficoltà tecniche – l’abolizione del segreto bancario richiede l’unanimità dei 27 – e le solite inanità esasperanti, se vogliamo essere realisti, ha ragione Tremonti: per come si è mossa l’Ue fino ad oggi nei confronti della crisi, meglio ognuno per sé, e Bruxelles (forse) per tutti.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.