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L'editoriale di Società Aperta

Esegesi e veri obiettivi del governo di coalizione

Le larghe intese non sono costrizione ed emergenze, ma cultura politica e scelte strategiche

di Enrico Cisnetto - 25 maggio 2013

Delle due l’una. O questo governo è un accidente della storia, deve durare il meno possibile per poi essere archiviato e dimenticato, e allora coloro che così la pensano, e soprattutto che di conseguenza agiscono, ci facciano sapere a che cosa deve lasciare il posto, e dunque sistema politico nel frattempo intendono costruire, e come. Oppure questo è sì un governo nato in condizione di stretta necessità, ma le larghe intese sono comunque ciò che oggi ci vuole per un paese che, essendo “sull’orlo del baratro” (parole del presidente di Confindustria, Squinzi) per aver vissuto due decenni di assurdo e distruttivo bipolarismo armato, abbisogna di un periodo non breve di convinta collaborazione tra le forze politiche, ma soprattutto di convergenza degli interessi votati al cambiamento e alla modernizzazione della società e del sistema economico, e allora occorre che chi partecipa all’esecutivo ne abbia piena consapevolezza e chi parlamentarmente lo appoggio sappia convintamente sostenerlo, pur senza per questo fare a meno di autonomia e capacità di stimolo. Invece, assistiamo ogni giorno alla sagra dei distinguo, le cronache sono invase da risse non dissimili da quelle che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica, il gioco del berlusconismo e antiberlusconismo condiziona il dibattito (si fa per dire) politico, inducendo il governo ad una mediazione preventiva (sbagliata).

Prendete le parole che Angela Merkel ha speso l’altro giorno, in occasione del centocinquantesimo anniversario della fondazione dell’Spd – “una voce combattiva e inflessibile per la democrazia in Germania cui vanno il mio rispetto e riconoscimento per il servizio al nostro Paese, che non potrà mai essere considerato abbastanza” – e soppesatele alla luce del fatto che in questo momento i democristiani sono al governo e i socialdemocratici all’opposizione. Poi soffermatevi su una qualunque dichiarazione politica italiana, alla luce del fatto che Pd e Pdl sono insieme al governo (e neppure più con la figlia di fico dei “tecnici”), e vedrete lo stridore delle due situazioni. E non stiamo parlando dell’incredibile pantomima sulla presunta ineleggibilità di Berlusconi. No, per misurare la differenza tra Italia e Germania basta leggere ciò che dice un uomo assennato come Veltroni, il quale al cospetto di un governo che non ha neppure un mese di vita si preoccupa che l’eventuale modifica della legge elettorale – peraltro indispensabile – consolidi la grande coalizione e quindi evoca “il rischio di dare una strumentazione elettorale alla prosecuzione delle larghe intese, mentre la ragione stessa dell’esistenza del Pd è l’alternanza”. Come se le scelte politiche non debbano essere in funzione degli interessi supremi del Paese ma di quella di bottega. Peraltro, Veltroni osserva correttamente che “oggi abbiamo un sistema politico sostanzialmente tripartito, con uno dei tre soggetti disinteressato al governo”. Se a questa osservazione aggiungesse anche quella che la somma tra gli astenuti, i votanti scheda bianca o nulla e quelli che hanno scelto la forza dichiaratamente “non governativa” fa oltre la metà degli aventi diritto, se ne tratterebbe con facilità la conclusione che alle altre due forze, seppur dialetticamente alternative, non resta che unire le (residue) forze se vogliono dare risposta alle esigenze del Paese. Che, si badi bene, non sono solo le urgenze e le emergenze, sono soprattutto le grandi scelte strategiche che i due poli in vent’anni non sono stati capaci, chi per un verso chi per l’altro, di mettere in campo.

Insomma, se il destino di questo governo è non dico vivacchiare ma anche considerare le emergenze il suo core business, e se il destino di questa “strana” maggioranza è che Pd e Pdl tirino la corda per lustrare i rispettivi ottoni elettorali pur cercando di non spezzarla e soprattutto di stare attenti che a dare lo strattone decisivo sia l’altro, beh allora è meglio, molto meglio che si cambi solo il sistema di voto e si vada alle elezioni a ottobre, accada quel che accada. Se, invece, il governo capisce che può e deve sfruttare la sua capacità di ricatto verso i partiti – mettendo in gioco non tanto e non solo la sua esistenza quanto le dimissioni del Capo dello Stato – e se la maggioranza si sforza di concepire la difesa delle diversità in un quadro di costruttiva e leale collaborazione, avendo l’onesta intellettuale di ricordarsi che centro-destra e centro-sinistra hanno sempre avuto il problema di conciliare linee diverse al loro interno (e spesso le differenze erano maggiori delle attuali), allora non solo si potranno affrontare le questioni urgenti, ma si potranno porre le basi della Terza Repubblica.

Eh già, le larghe intese non richiedono solo uno sforzo di pazienza, ma di intelligenza e cultura politica. Le componenti riformiste dei due partiti, insieme a quel po’ di buono che c’è nei centristi, dimostrino di averlo capito e vengano allo scoperto. Non solo per altruismo – il bene del Paese – ma anche per sano egoismo, visto che del già frantumato Pd presto non ci sarà più neanche il ricordo e che del Pdl non rimarrà più traccia non appena le circostanze metteranno fuori gioco il redivivo Cavaliere. Il terreno più giusto per misurarsi sulla “cultura di governo” messa a fattor comune sono le riforme istituzionali. Se ci siete battete un colpo, prima che sia (di nuovo) troppo tardi.

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