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I media a caccia di immagini della detenuta

Erika, la gogna oltre la condanna

Meglio il garantismo del voyeurismo popolare. A rischio la rieducazione carceraria

di Davide Giacalone - 23 maggio 2006

La foto si affaccia su quasi tutte le prime pagine, ritraendo Erika mentre gioca a palla. Nei titoli e nei pezzi ricorre spesso l’errore, informando il pubblico che, “per la prima volta”, è uscita dal carcere. I guasti della giustizia derivano anche da generale scarsa coscienza civile. La ragazza non era fuori dal carcere, non era in gita, non riceveva premi. Era il carcere stesso ad avere organizzato una partita, conducendovi alcune detenute. Questa ventiduenne ha commesso, quando aveva diciassette anni, un crimine atroce, un duplice omicidio orrendo, sia per le modalità che per la successiva freddezza nel negarne la responsabilità. E’ stata condannata a sedici anni di carcere. A taluni può sembrare che sedici anni siano pochi, se si fosse trattato di un maggiorenne nessuno gli avrebbe tolto un duplice ergastolo, ma, in ogni caso, la pena c’è e deve essere scontata. Tutta. Però, dopo la condanna, si tolgano gli occhi d’addosso alla ragazza. Non c’è e non ci deve essere una specie di tribunale popolare incaricato di spiarne i gesti, di valutarne la redenzione, di ricordarne la spietatezza. Basta, la parte pubblica è finita con il processo, la pena è privata. Non si leggano queste parole come esclusivamente indirizzate alla “difesa di Erika”. La cosa non mi disturba, e sono pronto a difendere qualsiasi detenuto stia scontando la pena. Sono cittadini che pagano, e vanno rispettati. Ma c’è di più. Nel corso di un’attività ricreativa i volti sono distesi, ci scappa il sorriso, con gli altri detenuti si scambia l’umore del cameratismo. E’ una tessera inserita nel mosaico carcerario, che certo non è né allegro né confortevole. Isolare la tessera può falsare, anzi, falsa certamente il senso delle cose. Erika, dopo il duplice omicidio, ricevette molte lettere di coetanei, che solidarizzavano ed anche l’ammiravano. Stupefacente? Non molto, l’esposizione mediatica è capace di solleticare la follia collettiva. Che effetto può avere, su quella fascia di giovani, il vederla ora sorridente e giocosa? Né credo che, per compensare, la si debba ritrarre anche quando piange e contempla il vuoto della vita, nel chiuso della cella. Semplicemente si devono distogliere gli occhi. Infine vorrei non si dimentichi che ciascuno di noi è parte di una catena relazionale. Il padre di questa ragazza ha subito dolori inenarrabili, rimasto solo con lei ha deciso di esserle vicino. Accanto a quella figlia che gli ha distrutto la vita. Dato che si tratta di un uomo che non s’è venduto ai rotocalchi ed al guardonismo televisivo, forse merita un qualche rispetto. Tutto questo non è passato per la mente dei molti che hanno messo in pagina la foto, magari gli stessi pronti a biasimare il brutale messaggio di quella di un bimbo morto perché nel ventre di una madre assassinata.

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