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L’Eni di ieri e l’Eni di oggi

Enrico Mattei tra mito e realtà

Un’avventura industriale (e politica) che ancora dura

di Elio Di Caprio - 04 maggio 2009

A Indro Montanelli, il grande giornalista borghese di cui tutti (anche gli ex avversari) celebrano il centenario, lodandone il disincanto e l’acume, non piacevano i visionari o coloro che si definivano tali, ma se ne sentiva incomprensibilmente affascinato. Non gli piaceva, ad esempio, l’ultimo Berlusconi entrato in politica con la “lucida follia” dei suoi interessi personali associati a quelli generali, non gli piaceva negli anni ’60 l’altra figura a cavallo tra imprenditoria e politica, l’outsider Enrico Mattei, che era riuscito a mettere al proprio servizio la politica italiana di quei tempi.

Montanelli, dopo l’esperienza del fascismo, immaginava e sognava un’ Italia diversa, divisa sì ma senza bluff e privilegi, senza sottomissioni conformiste ai vincitori di turno, sottratta alla guerra per bande dei tanti feudi di potere, vaccinata da illusioni miracolistiche. Si trovò invece amaramente a constatare più di una volta quanto fosse importante l’apporto prepotente di qualche ambizioso capitano di ventura, come Mattei, per imporre il nuovo, identificando la propria avventura personale con quella della Nazione e creando un mito fondante che risvegliasse nuove energie.

Poi, come ben sapeva Montanelli, in Italia i fuochi reali durano poco e quelli d’artificio scompaiono, certamente la rivoluzione permanente fa poca strada nel contesto italiano. Dopo Mattei infatti ritorna all’Eni la fase della normalizzazione del suo successore, Eugenio Cefis. Resta il mito ed Enrico Mattei era già un mito prima che morisse, aveva un suo seguito popolare da leader politico, era considerato con rispetto e timore a destra come a sinistra.

Allora non esisteva ancora l’arco costituzionale a delimitare la legittimazione dei partiti. Nell’Italia gracile degli anni ’60 la politica contava molto più di adesso e la lotta agli altri potentati economici non era possibile senza connivenze con tutti i partiti allora in lizza, di maggioranza e di opposizione, dal PCI al MSI.

Il sistema economico in evoluzione – non erano ancora nate le tante migliaia di piccole e medie imprese - doveva fare i conti con le prime spartizioni dei centri di potere e l’Eni poteva sottrarvisi solo grazie ad una forza propria costruita con l’intento di porre la stessa partitocrazia al proprio servizio.

Il rischio, paventato da Montanelli ed in parte realizzatosi, era quello di creare con l’Eni uno Stato nello Stato, con il risvolto negativo di una conflittualità da repubblica indipendente difficilmente gestibile nei tempi lunghi, ma con la felice intuizione che valesse la pena di costituire una nuova società pubblica in campo economico in grado di dar vita a una vera e propria scuola di management aziendale, attrezzata e internazionale, pronta a confrontarsi con i tempi nuovi e spesso ad anticiparli.

Tutti i mezzi erano possibili per raggiungere l’obiettivo e parte dei fondi di dotazione dell’Eni approvati dal Parlamento ritornavano sotto forma di finanziamento ai partiti che li avevano votati. Tutte le spregiudicatezze potevano essere impiegate da Mattei per raggiungere le sue finalità di potere, ma il capo tutto-fare dell’Eni aveva così messo in moto- o era stato costretto a farlo- un micidiale meccanismo di commistione tra affari e politica, fino alla nemesi storica di aver reso l’Eni degli anni ’90 il taxi per i partiti di governo e non viceversa come il fondatore amava vantarsi, con una celebre battuta, negli anni ’60.

Non poteva certo Mattei prevedere che, dopo la sua scomparsa, l’ente statale dai grandi disegni sociali e nazionali da lui fortissimamente voluto avrebbe seguito l’andazzo dei tempi, prima “privatizzato” e infeudato agli interessi dei partiti di governo e poi messo sul mercato con una privatizzazione all’italiana che ha sostanzialmente lasciato inalterate le sue rendite di posizione non più a favore di una missione nazionale, ma di azionisti italiani e stranieri tra cui figura una forte componente degli “odiati” americani.

Non va dimenticato che nell’Italia del dopoguerra, per lontane reminiscenze nazionalistiche e per le vaghe concezioni terzo mondiste della sinistra, gli (alleati) americani erano considerati come i nuovi imperialisti- quelli della guerra in Vietnam- che, sprezzanti degli interessi dei popoli, erano pronti a qualsiasi azione, magari sotto il paravento delle società petrolifere, per controllare i gangli fondamentali dell’economia mondiale, a partire dalla pedina fondamentale, che è ancora tale, del mercato energetico.

Se l’Eni dopo tante traversie resiste ancora ed anzi è diventata una delle poche multinazionali italiane lo deve sicuramente all’intuizione visionaria di Mattei. Niente sarebbe successo senza il suo tocco iniziale. Le rievocazioni lo fanno apparire come Davide contro Golia nella battaglia perché fosse riservato un posto a tavola all’Eni come ottava sorellina petrolifera che ambisce ad entrare nel gioco globale dell’energia, obiettivo peraltro pienamente raggiunto.

Oppure il primo Presidente dell’Eni può apparire come una sorta di principe rinascimentale di origini piccolo-borghesi che riesce ad unire interessi e suggestioni, aspirazioni di potere e caparbia intenzione di affrancare l’Italia dalle sue minorità secolari. Forse è stato l’una e l’altra cosa insieme. E’ prematuramente scomparso nel ’62, ma in tempo per non dover fare tutti i conti con le conseguenze delle sue ardite fughe in avanti sostenute dalla passione più che dalla ragione.

Sicuramente – altri tempi- non ha arricchito se stesso e il suo clan di fedelissimi. Ha pagato il suo prezzo all’illusione generosa di potersi mettere di traverso e contare in un contesto geopolitico che già allora appariva di sostanziale e crescente dipendenza dell’Italia del dopoguerra da influenze esterne. Altri prezzi sarebbero stati pagati, fino agli anni ’90, dall’Italia Paese di frontiera e teatro di conflitto tra interessi internazionali contrastanti, ma Mattei non c’era più.

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