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L'eccezione che conferma la regola

E se non bastassero i tecnici ed i competenti?

Anche la politica sta entrando in "terra incognita" e non si sa come ne uscirà

di Elio Di Caprio - 07 dicembre 2011

E se fallissimo lo stesso? E se l’euro fallisse non (solo) a causa dell’Italia e della sua cruciale debolezza finanziaria? Dovremmo rifare tutti i conti, ammettere che Giulio Tremonti aveva ragione quando evocava i mostri da videogioco della finanza internazionale o quando già prima della scorsa estate avvertiva da nuova Cassandra che eravamo tutti sul Titanic ballando in coperta in attesa del naufragio. Siamo veramente ancora in terra incognita tra propaganda e realtà, ma almeno adesso c’è un filo di fiducia se non di speranza verso un governo di tecnici e di competenti, che magari ci rappresentano una realtà drammatizzata ma da cui accettiamo più volentieri i sacrifici.

Mario Monti parla apertamente di errori madornali compiuti da tutti i governi che tra Prima e Seconda Repubblica si sono avvicendati sulla scena nazionale indebitandoci oltre misura per lo “sguardo corto” di aver pensato più agli immediati consensi elettorali che non al futuro delle generazioni successive. Evidentemente erano governi composti non da quei tecnici e da quei competenti- compreso Carlo Azeglio Ciampi?- di cui avremmo invece avuto bisogno per guidare la barca Italia negli ultimi decenni. Ma poi tra un anno e mezzo, e non potrebbe essere diversamente in una democrazia che vuole ancora funzionare nonostante i condizionamenti crescenti del mondo economico-finanziario globale, la palla dovrebbe tornare ai politici e agli eletti quando l’opera di commissariamento avrà finalmente termine.

Ma si può tornare al punto di partenza come se niente fosse e magari ritrovarsi ancora una classe di governo di “incompetenti” espressione di un Parlamento di “nominati”? Basta una parentesi di presunti o veri tecnici a salvarci per l’avvenire? Basterebbe porci queste semplici domande, riconoscere che come dice ora Mario Monti le vecchie classi dirigenti non sono state all’altezza della situazione indebitandoci e non pensando all’avvenire, per cercare almeno di (ri)costituire un sistema che salvi insieme la rappresentanza democratica ed un minimo di competenze. Altrimenti dovremmo ammettere che il “senso dello Stato” si ritrova più facilmente in una compagine governativa, improvvisa più che improvvisata, di tecnici e di competenti (per definizione) che non in una classe politica liberamente eletta sia pure in maniera distorta come è avvenuto nella recente storia del bipolarismo all’italiana.

Già quanto successo dal mese scorso pone incresciosi interrogativi a chi pensava che l’attuale Costituzione fissasse dei principii irrinunciabili come quello di far posto soltanto a governi eletti democraticamente. Cosa ci manca per prendere atto che il conflitto tra democrazia e competenze è destinato sempre a riprodursi se mancano a monte regole certe nell’equilibrio dei poteri e nella rappresentanza democratica? Dobbiamo parlare di fallimento della democrazia o della politica? Certo la storia dell’Italia ci ha più volte presentato momenti di improvvisa autocrazia o di tentazioni più o meno autoritarie da partito unico per porre termine o arginare le inconcludenze parlamentari dovute alle lotte intestine e di fazione tra partiti e all’interno degli stessi partiti.

I “competenti” sono stati chiamati in campo in occasione di altre svolte drammatiche come quella degli anni ’30 quando- ce lo ha ricordato recentemente l’ex ministro di Ciampi, Sabino Cassese- lo stesso Mussolini affidò ad una classe di tecnocrati del calibro di Menichella, Benduce e Mattioli il compito di arginare gli effetti della crisi finanziaria internazionale di allora nazionalizzando gran parte dell’industria e del mercato finanziario di allora con conseguenze di sistema che si sono protratte fino agli anni ’90. I tecnocrati attuali sono altra cosa, non sono espressione di un governo autoritario e l’Italia di oggi superconnessa ai mercati europei e mondiali non ha paragoni con la vecchia società agricola che muoveva i primi passi sulla via dell’industrializzazione.

Allora vigeva lo statuto Albertino, adesso una Costituzione democratica che si fonda su libere elezioni. Ma qualcosa non ha funzionato e non funziona se il Parlamento si autoaffonda da solo dando così ragione alla sfiducia ed all’intolleranza popolare per un sistema che giunge all’acme della sua crisi senza accorgersene- è successo già 20 anni fa con Tangentopoli- e si affida prima ai “commissari” di Publitalia per fare piazza pulita dei vecchi partiti ed ora ai “commissari” voluti da un ex comunista come Giorgio Napolitano. Di quanti commissari avremo bisogno in futuro? Qualcuno comincia finalmente ad aprire gli occhi.

Secondo Eugenio Scalfari la Terza repubblica sta nascendo od è nata nel segno improprio di Napolitano, tutto nacque con il governo del Presidente, con la “dittatura temporanea” di Mario Monti accettata dal Parlamento. Ma poi il direttore di Repubblica nel suo ragionamento teso a dimostrare la democraticità, nonostante tutto, di questo governo d’eccezione, si sente obbligato a domandarsi perché siamo giunti a questo punto, a criticare i partiti che – come dice- “non debbono essere le agenzie di collocamento delle loro clientele e non debbono occupare le istituzioni, devono solo comportarsi come organo di indirizzo politico” Ben detto, ma Scalfari va oltre perché il governo Monti, sia pure nato nell’emergenza, dovrebbe essere secondo lui “il pronubo della Terza Repubblica, di un nuovo rapporto tra partiti ed istituzioni”, non rappresenta una forzatura costituzionale, ma al contrario è la dimostrazione vincente che cambiare si può e quindi giunge ad elencare una serie di riforme “serie” da approvare – non quelle a parole che servono solo alla propaganda- dalla legge elettorale, alla riduzione del numero dei parlamentari, ad un Senato per le regioni, ecc.

C’è da ricostruire uno Stato ( federale e non più centralizzato), conclude Scalfari, e questo sarà il compito della Terza Repubblica che è già cominciata. Sull’altro fronte ad Eugenio Scalfari, il guru di sinistra sempre osannato, si oppone l’altro guru fresco di destra, l’indomito Giuliano Ferrara, che giunge pressocchè alle medesime conclusioni quando afferma che nel 2013, dopo Monti, non si può ricominciare come se niente fosse, bisogna rifare dalle fondamenta quel sistema che nel suo ordinario registro politico ed elettorale non produce decisione. Belle parole e propositi lodevoli se non astratti, tutti d’accordo, da una parte l’indicazione e l’ enumerazione delle riforme possibili da parte di Scalfari e dall’altra la presa d’atto del berlusconiano Ferrara che così non va, il sistema va cambiato e rifondato.

Ma come- e qui torniamo sempre al punto di partenza- se non avendo il coraggio di riformare “seriamente” la Costituzione nel suo complesso, rimodellandola con una revisione della rappresentanza e dei poteri? Non ci è bastato quanto è successo e succede con il governo Monti appena agli inizi. Non dice nulla che continuiamo periodicamente a domandarci perché i partiti abbiano preso tanti poteri – se lo domanda da tempo persino un noto costituzionalista come Michele Ainis- e perché l’unica via d’uscita al loro strapotere la troviamo sempre altrove nei “tecnici” e nei “competenti” che essi stessi non riescono più ad esprimere?

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