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Il partito di Repubblica e quello del Giornale

E’ l’ora del giornalismo militante?

Due “pensieri unici” a caccia del consenso degli italiani

di Elio Di Caprio - 28 settembre 2009

La guerra mediatica per interposto giornale – ieri la “Repubblica” di Scalfari, oggi il “Giornale” di Vittorio Feltri - imperversa come non mai forse perché questi sono tempi in cui i partiti in quanto guide organizzate del consenso hanno perso presa e appeal. Ed allora tanto vale profittare del vuoto ed usare i quotidiani (o i settimanali) come armi improprie, ma non tanto, per favorire un determinato “partito preso” o una “propaganda presa” a favore dell’uno o dell’altro schieramento.

L’effetto negativo è che la stessa indipendenza di giudizio di alcuni giornalisti viene messa a dura prova se, volenti o nolenti, sono costretti a dare il loro contributo professionale ad una linea di propaganda prefissata.

Nel caso di Eugenio Scalfari, il lungimirante fondatore di “Repubblica”, si può dire con certezza che il suo giornale sia stato per anni il giornale-partito più importante, rispettato e rispettabile al di là di ogni spirito o coerenza critica, pronto a giocare un ruolo di prima grandezza nelle lotte tra i partiti e tra le tante confraternite all’interno dei partiti già dai tempi della cosiddetta Prima Repubblica.

Chi osava mettersi contro il pensiero intelligente e progressista di “Repubblica”, contro quello che veniva proclamato a grandi titoli per indirizzare o intimidire? Forse la sola arguzia graffiante ed elegante di Indro Montanelli riusciva ad opporsi alle tante ammucchiate conformiste che andavano via via consolidandosi all’ombra di “Repubblica”, ma certo Montanelli non mirava a creare per suo conto un ceto di militanti appesi al verbo di un giornale-partito, così come sembra vogliano fare ora i giornali di “destra”, come Libero o Il giornale.

I tempi sono cambiati, Montanelli non c’è più e la televisione ha aumentato enormemente l suo potere di influenza. Al partito di “Repubblica” si oppone ora il partito de “Il Giornale”, c’è sempre la tentazione di opporre ad un Vangelo di sinistra un Vangelo di destra come se toccasse ai giornalisti entrare in diretta competizione con i leaders di partito.

La “Repubblica” contro il “Giornale” e tutto il resto non conta nulla? Tutti indotti a scegliere tra due giornali “unici”, da pensiero unico, senza avere la possibilità di distinguere e giudicare? Tra tanto trash da giornalismo televisivo e da carta stampata nessun Montanelli è alle viste.

Il giornalismo schierato può servire alla propaganda, ma poi qualche verità resta sempre fuori, nonostante l’indipendenza di giudizio del singolo giornalista. Avviene così per lo stesso Marcello Veneziani che riesce pur sempre ad esprimere il suo pensiero liberamente, senza ordini di scuderia e con un ostentato approccio anticonformista e disincantato che seduce i lettori.

In un recente editoriale su “il Giornale” contro lo “sfascista” Di Pietro, da mesi attaccato ossessivamente dal quotidiano di Feltri, Veneziani dipinge causticamente il Tonino nazionale come colui che a prima vista- dice- sembra l’autista di un ministro, ma poi quando lo senti parlare ti accorgi che lo avevi sopravvalutato…- Critica maliziosa e in parte condivisibile, ma ciò non impedisce al giornalista di riconoscere all’azione di Di Pietro e di “Mani Pulite” il merito (?) di aver proiettato alla ribalta del governo gli attuali avversari dell’onorevole-magistrato, da Berlusconi, a Bossi e a Fini.

E’ troppo presto per fare la storia, ma chi potrebbe non riconoscere che ciò è effettivamente accaduto? E’ stata un’ eterogenesi dei fini come spesso accade in politica? E’ facile a questo punto parlare di sconfitta di Di Pietro – e Veneziani lo dice- e del populismo dipietrista che alla prova dei fatti si è dimostrato inferiore al populismo di Bossi e di Berlusconi. Tutto vero, ma non basta.

Veneziani accusa Di Pietro di continuare a sbagliare perchè non si accorge che sfasciando l’immagine di Berlusconi in Italia e all’estero, rischia di sfasciare l’immagine dell’Italia nel mondo. Ma le cose stanno veramente così, al di là delle legittime o illegittime speculazioni degli avversari politici sul Cavaliere, sulla sua immagine o sulla sua conduzione della cosa pubblica?

Se distinguiamo i fatti dalla propaganda – cosa molto difficile nei tempi attuali - i nomi di Noemi, di Patrizia D’Addario, di Tarantini ora tanto popolari e di dominio pubblico come se si trattasse di un reality show non li ha fatti Di Pietro, erano completamente sconosciuti solo un anno fa, la tormenta di gossip e di trash non aveva ancora sopraffatto l’indomito Cavaliere, la sua vita privata era giustamente tenuta al riparo.

Il solo Paolo Guzzanti aveva parlato di mignottocrazia al potere, ma niente di più. Si può dare ora all’”autista” Di Petro anche la responsabilità di aver sfigurato il profilo di Berlusconi e quindi dell’Italia su un versante così delicato, di immagine ma non immaginario?

Ecco, qui sta il punto più pericoloso che ha determinato lo sconquasso mediatico odierno che potrà sì riassorbirsi, ma non potrà non avere strascichi di lunga durata...

L’immedesimazione del leader con l’Italia l’ha voluta, preparata e patrocinata lo stesso Cavaliere con un’operazione propagandistica pervicace tanto da eleggersi, senza ironie, come miglior Presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni. Berlusconi non ha risposto ad una sfida di Di Pietro per definirsi il migliore, forse ne è intimamente convinto per i suffragi ottenuti dal suo partito o qualche cortigiano glielo ha fatto pensare.

Come pretendere che la stampa straniera non si incuriosisca e non vada a scavare nella vita privata di un tale personaggio, al di là di Di Pietro e del dipietrismo (l’ultimo “ismo” di questa confusa Seconda Repubblica?) La realtà è molto più semplice ( o complicata) di quanto un giornalista valido come Veneziani riesca ad ammettere.

Il Governo e il suo Presidente debbono essere giudicati per i fatti, è vero, non per le parole, tanto meno per i pettegolezzi infiniti sulla figura del Cavaliere.

Ma ammesso che sia così siamo proprio convinti che lo stile e l’immagine di un Presidente del Consiglio non contino più nulla in politica?

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