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Public Policy

La crisi strutturale del sistema Paese

E dopo il declino, il degrado

Le due condizioni possibili per domare il “bisbetico" collasso

di Enrico Cisnetto - 16 novembre 2007

Dal declino al degrado. Essendo stato tra i primi che ha usato la definizione di declino per indicare lo stato di crisi strutturale del nostro sistema economico – scelta di cui ho sempre rivendicato la paternità, anche quando sono stato oggetto di derisione o, peggio, quando mi è stata affibbiata l’etichetta di menagramo – credo di avere le giuste credenziali per proporre di accantonare quel giudizio a favore di un altro, il degrado, che descrive uno stadio successivo, e dunque più grave e pericoloso, del declino stesso, perchè riguarda l’intera società nazionale e ha caratteri ben più pervasivi. Mi riferisco prima di tutto al degrado urbano, quello che ha a che fare con la crescente mancanza di sicurezza – per le strade, sui mezzi di trasporto, ma anche nelle case, nelle situazioni del privato – con il diffondersi dell’illegalità – sia quella criminale, spicciola e organizzata, sia quella “legalizzata”, figlia del lassismo e dell’impunità collettiva – e con il disfacimento materiale (e conseguentemente morale) di aree sempre più grandi del territorio. Ma mi riferisco anche alla disgregazione dei rapporti sociali, all’egoismo dilagante, all’individualismo esasperato, all’ormai totale perdita di vincoli statuali, alla scomparsa dell’educazione civica e all’affermazione della maleducazione e dell’ignoranza.

Non ho nessuna intenzione di fare della sociologia a buon mercato, ma ove mai se ce ne fosse stato bisogno i fatti degli ultimi tempi, dagli omicidi efferati che hanno giustamente indotto Giuliano Ferrara a rimpiangere “i bei delitti di una volta” al problema irrisolto degli immigrati clandestini per non parlare del “tifo” (si fa per dire) calcistico che sconfina nel terrorismo, si sono incaricati di sbatterci in faccia una tale quantità e un tale livello di penetrazione di fenomenologie sociali cui non si è stati capaci di dare risposta, che non possono non farci parlare di agghiacciante “scadimento” del Paese. Diciamoci la verità: finora eravamo davanti ad un paese che soffriva di un lento ma inesorabile declino economico, cui rischiava di seguire una progressiva marginalizzazione internazionale, e per di più con una relativa coscienza della gravità del pericolo, resa labile da quello straordinario ammortizzatore sociale che è rappresentato dal patrimonio accumulato (che ha sostituito le crescenti quote di reddito mancanti). Non certo una piccola cosa, anzi, ma che pareva circoscritta all’economia, e che dunque potesse essere affrontata mettendo insieme le riforme strutturali del modello di sviluppo e di welfare con l’effetto fiducia che il ritorno al decisionismo avrebbe potuto generare. Magari, direte voi: di tutto questo non si è vista neppure l’ombra. Vero. E immaginare di innescare un circolo virtuoso del genere, specie dopo due decenni di transizione verso il niente, è roba da far tremare le vene ai polsi. Ma se a fianco al declino economico ci mettiamo anche la corrosività della decadenza morale, civile e sociale, il vero e proprio default della giustizia penale e civile, l’obsolescenza dell’assetto istituzionale, il collasso sempre più evidente del sistema politico – pericoli messi in evidenza ma resi ancora più gravi dall’ondata di “anti-politica” cresciuta nella società – allora il compito che sta di fronte alla classe dirigente del Paese si fa davvero tremendo.

E pur tuttavia, anche una bestia peggiore del declino, come il degrado, può essere domata. A due condizioni. La prima: che ci sia una convergenza delle intelligenze. Cioè che chi fa opinione accantoni la tendenza, un po’ cinica e un po’ sciocca, di “ballare allegramente sulla tolda del Titanic”, e spenda la propria credibilità nell’aprire gli occhi al Paese sui pericoli mortali che corre e sulla necessità trangugiare medicine amare. La seconda: che quella parte della classe dirigente (politica e non) cui finora sono mancati gli attributi ma non il cervello, unisca gli intenti e le forze perchè finalmente si metta coraggiosamente mano a tutte quelle scelte necessarie ad invertire la rotta e a ridare una prospettiva all’Italia, alle sue imprese, ai suoi lavoratori, ai suoi giovani. Utopia, ingenuità, parole sprecate? Può darsi. Anzi, a pensarci bene, probabilmente. In questo benedetto Paese le spinte conservative, aiutate da una miopia diffusa, sono sempre prevalse. Ma questa realistica valutazione non può e non deve rappresentare un alibi che giustifica la rassegnazione. A ben vedere, per esempio, sulla scena stagnante della politica si è aperta una piccola ma potenzialmente salvifica finestra.

L’apertura politica (anche se non ancora parlamentare) della crisi del governo Prodi, voluta sia da Dini in occasione della Finanziaria sia da Veltroni con la proposta di una nuova legge elettorale – che al di là dello specifico (criticabile quando mischia il sistema tedesco con quello spagnolo proponendo uno sbarramento di fatto tra l’8% e il 10%) ha il merito di togliere di mezzo il premio di maggioranza, cioè l’arnese con cui abbiamo costruito il bipolarismo fallimentare di cui dobbiamo sbarazzarci – e il contestuale inciampo di Berlusconi sulla “spallata” che non c’è stata, sono tutti sintomi del fatto che quella “iniziativa politica coraggiosa” che ieri il Foglio reclamava ha delle precondizioni realizzate per essere davvero avviata. Leggere l’intervista al Corriere di ieri di Gianni (ripeto, zio Gianni) Letta per saperne e capirne di più. Incrociando le dita.

Pubblicato su il Foglio di venerdì 16 novembre

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