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2012: l'anno dello spread e della recessione

Due piani B

Occorrono grandi riforme strutturali e un governo federale eletto dai cittadini

di Enrico Cisnetto - 29 dicembre 2011

Chiudiamo il 2011 in una posizione di relativo vantaggio rispetto alla “maledetta estate” che ha reso questo un annus horribilis. E di ciò va dato merito al capo dello Stato – che se ha varcato la linea di confine dei suoi poteri costituzionali, lo ha fatto per il supremo bene del Paese di fronte al fallimento del sistema politico e dell’intera stagione chiamata Seconda Repubblica – e al presidente Monti, che spendendo tutta la sua credibilità personale ha saputo frenare la deriva verso il default ed è riuscito a rimettere l’Italia al tavolo che conta in Europa, con Francia e Germania.

Vantaggio di non poco conto, ma che finisce qui. La manovra era un atto dovuto, abbiamo tamponato la situazione, ora si riparte da zero. O meglio, si riparte dai problemi di sempre, aggravati da due decenni di becero populismo (di destra e di sinistra). Avendo registrato il segno meno già nel secondo semestre dell’anno che si sta chiudendo, il 2012 sarà l’anno della recessione – un punto e mezzo se va bene, tre se va male – e continuerà ad essere quello dello spread (500 punti è quota pericolosa e costosa). In più, con tutta evidenza, l’Italia non potrà recuperare competitività se nell’ambito della stessa moneta il credito costa il triplo di quello tedesco. Né potrà combattere la decrescita, confinandola nel solo primo semestre dell’anno, e ritrovare la via dello sviluppo se non ci sarà fiducia – la materia prima che più manca in questa fase depressiva – e se mancheranno gli investimenti privati e pubblici.

Come uscirne vivi e smentire la profezia Maya di un 2012 da fine del mondo? La soluzione era e resta duplice: da un lato, sul piano interno, occorrono le grandi riforme strutturali – economico-sociali e di mercato come quelle politico-istituzionali – mentre dall’altro, sul piano europeo, occorre mettere in moto il processo di integrazione che porti ad un governo federale eletto direttamente dai cittadini cui gli Stati devolvano quote crescenti di sovranità. Per entrambe le situazioni abbiamo bisogno di un “piano B”. Per l’Italia, il “piano B” è qualcosa di più e di diverso di quella che abbiamo chiamato “fase due” e che da ieri si è tradotta in “piano CrescItalia”.

Che ne sia consapevole anche Monti lo fanno sperare due passaggi della conferenza stampa di ieri: quando ha affermato che non è il suo governo che ha sottoscritto con Ue e Bce l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 (“non prendo posizione né favorevole né critica ma faccio presente che sono impegni di altri”), e quando non ha escluso che si possa finalmente mettere mano al debito (“ci sono ipotesi interessanti avanzate da esperti ed analisti, ma eventuali operazioni sullo stock debbono venire dopo al serio e duro lavoro sui flussi”). E già, perché il “piano B” per l’Italia non può consistere solo nel coniugare genericamente rigore (fase 1) e crescita (fase 2), ma nell’integrare i due obiettivi spostando il focus dal deficit – assurdo in piena recessione puntare all’azzeramento, mentre altra cosa è la spending review dei flussi correnti – al debito, dal cui abbattimento si possono ricavare anche le risorse necessarie ad alimentare gli investimenti in conto capitale, in questa situazione l’unico volano di crescita praticabile insieme alle liberalizzazioni (che però hanno effetti in tempi medio-lunghi).

Ho visto con piacere che anche altri commentatori economici (da Pomicino a Mucchetti) hanno condiviso, seppur con accenti leggermente diversi, l’idea di cui da tempo mi sono fatto propugnatore, della quotazione in Borsa del patrimonio pubblico e del relativo acquisto forzoso dei titoli di quella società veicolo per chi ha un patrimonio privato rilevante (quella che ho chiamato “patrimoniale light”). Capisco la scolastica di Monti quando sostiene che prima bisogna mettere mano alla spesa e poi al debito, ma sarà bene che il presidente del Consiglio capisca viceversa la logica di chi fa questa proposta, che va ben al di là della manovra di bilancio per diventare un grande progetto, che amo definire “liberal-keynesiano”, di ridefinizione dell’Italia e del suo modello di sviluppo.

Ma tutto questo è condizione necessaria ma non sufficiente se poi l’Europa non trova la strada per diventare United States of Europe, l’unica che può mettere in salvo la moneta unica e l’intero eurosistema. E visto che finora passi in quella direzione non ne sono stati fatti, come dimostra lo spread Italia-Germania a 518 punti ma anche quello di altri paesi, Francia compresa, ecco che anche qui sarà bene dotarsi di un “piano B”, assodato che quello “A” consiste nel convincere Merkel e Sarkozy a fare il grande passo dell’integrazione, possibilmente prima delle elezioni francesi.

Cosa può essere? Intanto partire dal presupposto che esiste un “real and present danger”. Finora la disintegrazione dell’euro l’abbiamo voluta esorcizzare, quasi che parlarne portasse acqua a quel disastroso mulino. Ma se non vogliamo subirla facendoci trovare impreparati, dobbiamo considerarla un’ipotesi. Non auspicabile, ma possibile. E predisporre un piano d’evacuazione è il minimo della prudenza. Sperando che non ce ne sia bisogno. Buon anno.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.