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Recensione a Napolitano e Rossana Rossanda

Due penne lievi, le storie di una vita

“La ragazza del secolo scorso” e “Dal Pci al socialismo europeo”. Ricordi, idee, emozioni

di Davide Giacalone - 31 marzo 2006

E’ la storia di una militanza piena, assoluta, della vita che, dedicata ad un’idea, ad una passione, diventando ideologia, si chiude in un universo a se stante, ignorando la realtà non per scelta ma per difesa. E’ la storia di una persona, ma potrebbe essere la storia di chiunque abbia creduto o creda di vivere nella verità, e per continuare a crederlo debba, ogni giorno, accantonare il mondo reale, ridurlo a quello che s’era prima immaginato. Non è la storia di una vita politica, perché Rossana Rossanda ha lavorato e combattuto ben oltre la data che pone fine al suo libro autobiografico (“La ragazza del secolo scorso”, Einaudi), ma descrive il tragitto di chi ha dovuto infrangere la verginità della buna fede per non tradire quegli stessi ideali che ne avevano guidato la gioventù. Il libro termina con la radiazione dal partito comunista italiano, con l’uscita forzata dalla famiglia politica d’appartenenza, colpevoli, lei e gli altri de “il Manifesto”, non solo e non tanto di avere aperto gli occhi, ma di avere dato fiato alla bocca. Comunisti erano, e lo sono rimasti, ma è cosa diversa dall’essere interni alla verità del partito.
Un libro pregevole, sincero, scritto con una penna lieve, ma capace di scorticare le carni non solo di quanti hanno vissuto in quello stesso mondo, ma di tutti quelli che vivono in mondi autosufficienti, quindi chiusi. Un libro di coinvolgente e calda sincerità, tanto quanto si resta gelidi nel leggere le reticenti pagine che Giorgio Napolitano ha dedicato a quegli stessi anni. Leggete questi due libri (l’altro è: “Dal Pci al socialismo europeo”, Laterza), ed avrete chiaro non solo uno spaccato di storia comunista, ma anche i diversi effetti del vivere dentro o fuori l’ortodossia. Rossanda non si fa sconti, non cerca ripari, ed anche il lettore che non abbia mai condiviso la sua posizione politica soffrirà con lei la durezza di alcuni passaggi. Una durezza senza esagerazioni, senza compiacimenti, quindi ancora più dura. Come quando descrive il suo incontro con la splendida poetessa russa, Anna Achmatova, che sorride gentile nel ricevere i saluti degli ospiti, a Villa Abamelek, sede dell’ambasciata russa a Roma, e sorride anche a lei, Rossanda, fino a quando il traduttore termina la presentazione, definendola responsabile degli intellettuali del pci, e “il sorriso si chiuse come una porta”. Ce la sentiamo sui denti, quella porta. Sentiamo l’irrigidirsi di chi il comunismo sovietico lo conosceva bene, conoscendone l’avversità alla libertà intellettuale, e non poteva immaginare, forse neanche tollerare la buona fede dei compagni italiani.
Come potevano, gli italiani, non chiedersi nulla, non nutrire dei dubbi, almeno dei dubbi, sulla realtà sovietica? “Io lo so perché non mi interrogai sull’Urss e quelle che allora si chiamavano democrazie popolari. Non per troppa oscurità e silenzio, come nel 1938 sugli ebrei, ma perché nel 1948 il frastuono dell’est saliva al cielo”. E’ vero che già dopo la guerra Praga aveva perso la libertà (no, non con i carri armati, quelli arrivarono dopo, ma con un colpo che portò i comunisti al potere), è vero che non dissimili erano le storie dei vicini, ma era anche vero che quella era la patria del socialismo, che contro quegli eventi si scagliava la propaganda dei partiti moderati, dei gruppi vicini agli Stati Uniti, di quelli che prendevano soldi dal “padronato”, ed allora non si poteva cedere e concedere spazio. Il mondo chiuso aveva le sue regole, e quelle di guardare la realtà senza la pretesa di leggerla era una di queste. L’unico che avrebbe potuto fare qualche cosa, secondo Rossanda, sarebbe stato Palmiro Togliatti, ma non lo fece. “Lo strappo di Berlinguer fu lento e reticente. E così il Pci andò cieco e ammutolito fino al 1991 quando la bandiera rossa venne ammainata da Cremlino”.
Dopo arrivarono i fatti d’Ungheria, che provocarono crisi importanti in coscienze comuniste. Ma ancora non bastava: “ … non avevo lasciato il Pci né nel 1948 né nel 1956. I comunisti erano i soli a negare l’inevitabilità del non umano. Anche se ne avevano fatte di tutti i colori era perché credevano in questo, erano su piazza per questo principio ed erano abominati non per i loro vizi ma per questa loro virtù”. Che non è un banale machiavellismo, ma un più profondo processo di rimozione: com’è possibile credere ai propri occhi? com’è possibile credere che così nobili ideali producano tali nefandezze? No, ci deve essere un errore, forse negli occhi.
Ancora nel 1967, ospite, a Cuba, di Carlos Franqui, che pochi anni dopo sarebbe fuggito dall’isola correndo via dal “caudillismo” castrista, ancora sembrava non vedere quello che era evidente, nella nebbia della logorrea di Fidel, nelle immaginifiche ricerche di selezioni genetiche che portassero a mucche iper produttive, o ad erbe iper nutrienti, nei viaggi interni che portavano all’inaugurazione di villaggi fatiscenti, ma magnificati con la solita retorica di tutte le dittature, in quella persecuzione degli omosessuali che voleva trovare giustificazione nell’essere stata, Cuba, un bordello degli americani, nel quotidiano “Gramma”, del tutto illeggibile. Ma non bastava, si preferiva posare gli occhi sul fatto che Castro parlava male dei sovietici, non era detestato dalla gente, anzi. Poi la penna di Rossanda ci regala un altro frammento rivelatore: una lunga discussione con Castro, un confronto di idee diverse, forse uno scontro, poi l’apparire del terzo elemento, il silenzio di tutti gli altri: “noi ce lo potevamo permettere perché saremmo andati via, mentre loro sarebbero rimasti”. Un lampo. Ma allora non bastò. Incontrò anche il povero poeta Heberto Padilla, che continuava a ribadire che non c’era libertà, che gli intellettuali erano ridotti al silenzio. Poco dopo fu arrestato, costretto ad una pubblica e umiliante ritrattazione, ad accusare i propri compagni. Fu una pagina terribile, poi Padilla fuggì da Cuba. Come lui, tanti altri. Ma non bastava.
“La mattina del primo gennaio 1968, dopo una festa al Tropicana con ballerine e beveraggi che non avevo gradito, mi vidi tuffarmi nella piscina dell’Hilton come i magnati di dieci anni prima. Mah”. Questa ragazza, questa dirigente comunista, questa parlamentare del pci, cominciava a vedere e leggere, cominciava a guardare anche se stessa. E quando avrebbe visto quel che guardava non avrebbe più potuto avere pace senza dirlo. Non per questo cessava di essere comunista, non voleva, ma per il partito, per l’ortodossia, cessava di essere una persona affidabile, amica. Era giunto il momento della radiazione, e con questo la fine del libro.
Solo chi non ha vissuto passioni politiche può dirsi del tutto estraneo a quel travaglio, solo chi non ha mai trovato posto in una famiglia politica può non comprendere cosa significò il giorno della radiazione, ma solo chi è nato privo di schiena e di coscienza può credere che a quale che sia famiglia politica si possa sacrificare per sempre il dono degli occhi, del vedere, ed il diritto di raccontare, di dissentire.
Molti credono che questa sia una storia del secolo scorso, perché è scorso il secolo delle grandi ideologie. Ma non è così. Lo è solo a patto di credersi l’ombelico del mondo, il centro dell’Universo, solo a patto di scambiare le proprie disillusioni come esempi universali di vaccini antideologici. No, questa è la storia di sempre di chi subordina il vedere ad una precedentemente elaborata visione del mondo. Rossana Rossanda ce la racconta usando la sua esperienza di italiana, comunista e combattente, quindi ci fa il regalo di renderla immediatamente comprensibile (forse non per i più giovani). Ma è una storia universale, la storia di come si può divenire schiavi, la storia di come si può essere liberi.

www.davidegiacalone.it

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