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Verso le Europee

Draghi salvaci tu (con mille miliardi)

Gli antieuro urlano. Gli euristi gemono. Nessuno parla

di Davide Giacalone - 08 aprile 2014

Il problema non è l’urlo degli eurofobi, ma il gemito degli eurofili. I primi s’illudono e illudono d’avere la risposta alla crisi, i secondi temono la crisi delle loro risposte. Nel vuoto d’idee e nel disorientamento si perdono tempo e occasioni. Il tempo perso è quello passato al parlare dei mitici vincoli, con la solita litania del 3% (rapporto fra il deficit pubblico e il prodotto interno lordo), che per taluni sarebbe da sforare, per altri da raggiungere. Chiacchiere senza senso. Correggendo i conti e cancellando quella che riconoscemmo subito come irrealistica previsione del governo Letta, che voleva la crescita del pil all’1%, portandola a un ancora ottimistico 0.8, intanto, il rapporto con il deficit cresce di suo. Senza far niente e nulla spendere. Poi, comunque, per un Paese che ha un debito pubblico così spropositatamente alto la ricetta per guarire non consiste certo nel farlo crescere ancora.

In ogni caso gli zero virgola son pagliuzze, rispetto a quel che ci attende con il fiscal compact, vale a dire la riduzione del debito pubblico eccedente il 60% del pil, di un ventesimo l’anno per venti anni. A tal proposito ho letto con molta curiosità e attenzione la tesi del prof. Filippo Taddei, economista e consigliere di Matteo Renzi, annunciata quale scappatoia a quell’impegno. Dice Taddei: rispetteremo tutti gli impegni, ma il rientro dal debito si applica se non ci sono impedimenti congiunturali e solo se un Paese cresce quanto dovrebbe, che non è il nostro caso. Quindi, per ora, non si applica. Mi ha ricordato la Sofia Loren di “Ieri, oggi e domani”, che, da contrabbandiera, per non andare in galera si faceva mettere continuamente incinta. Noi, però, anziché in eterna gravidanza dovremmo starcene in perpetua convalescenza. Se questa è la tesi difensiva, preferisco l’accusa.

Oltre al tempo, si perdono anche le occasioni. Inesistente l’Unione politica si procede con strumenti bancari. Fu la Banca centrale europea, a partire dal luglio 2012, a risolvere la crisi dei debiti sovrani e dissolvere l’incubo dello spread. Lo fece mettendo nelle casse delle banche 1000 miliardi, da destinare all’acquisto di titoli pubblici che la Bce non poteva effettuare direttamente. Ora Mario Draghi (il migliore sulla scena) torna alla carica, questa volta contro la deflazione e la crescita asfittica (che si ripiega anche in Germania, da qui il non sorprendente consenso della Bundesbank). L’idea è di dare altri 1000 miliardi alle banche, questa volta acquistando le cartolarizzazioni dei crediti alle piccole e medie imprese, oltre che alle famiglie. Attraverso questa via reimmettendo liquidità nel mercato. Nel 2012 plaudimmo, rigettando le sciocche critiche sul “piacere alle banche”. Oggi dubito. Primo, perché acquistare derivati del rischio di credito è quel che perse il mercato statunitense. Per stare più attenti si potrebbe scegliere con oculatezza. Ma se si sceglie con troppa prudenza si finisce con l’aiutare chi meno ne ha bisogno. Poi perché le banche italiane sono le meglio messe e le meno capitalizzate, se si lascia in piedi il vincolo di patrimonio e si soccorre il credito deteriorato, tanto vale dire che le nostre banche vengono direttamente acquisite dalle tedesche.

La Bce non può far altro che usare le banche, ma se nell’Unione c’è ancora qualche mente politica in vita potrebbe proporre di meglio. Quella liquidità trovi garanzia e impiego in progetti produttivi europei, operati da soggetti europei. Dagli investimenti infrastrutturali (trasporti e telecomunicazioni) ai progetti di ricerca e innovazione (dalla chimica all’aeronautica, dalla farmaceutica alla meccanica), il rilancio del mercato interno può passare dalle aziende e dal mondo produttivo anziché dalle banche. Le quali, poi, troveranno migliore terreno per piantare i propri alberi del credito. Creare un debito europeo non per federare i debiti nazionali (questo si doveva fare nel 2010, oramai è andata), ma per finanziare opere federali, comporta complicazioni non tecniche o finanziarie (che si risolvono), ma politiche. Scegliere dove e come spendere non è neutro. Ma è il vero cimento che ancora può giustificare l’eurofilia e parlare agli eurofobi che sono divenuti tali a seguito del satanismo fiscale.

Velleitario? Occhio, perché se non si pongono questi temi e si gioca solo a fare i furbi, se si fanno i governi baciati alla francese, in una specie di orgia familiare allargata, o cucinati all’italiana, in un trionfo di parole lucenti e rimbalzanti, si favorisce il successo che porta all’eccesso di peso tedesco. Non perché il vantaggio competitivo sia nel loro sistema produttivo (il nostro ingaggia battaglia e vince), ma perché risiede nella classe dirigente. Che lì c’è.

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