Tommaso Padoa-Schioppa come Tremonti
Dpef e pensioni, pericoli sottovalutati
La Ue fa sul serio sul deficit/pil. I veri riformisti devono farsi sentire sulla previdenzadi Enrico Cisnetto - 06 luglio 2007
Stiamo correndo due pericoli mortali, ma che come al solito viviamo senza percepirne fino in fondo la perniciosità, anche da parte di chi li agita polemicamente. Mi riferisco alla bocciatura europea del Dpef e alla controriforma delle pensioni. Sui conti pubblici il fronte va da chi contesta le “ingerenze tecnocratiche” di Bruxelles (la sinistra massimalista), passa da chi fa orecchie da mercante (Prodi e la parte “dorotea” dell’esecutivo) e arriva a chi accusa di lassismo il governo dopo avergli imputato l’opposto in occasione dell’ultima Finanziaria (quasi tutto il centro-destra). La verità è che a tutti la levata di scudi della commissione europea è parsa il solito gioco del cartellino giallo, o al massimo rosso pallido, che più volte si è ripetuto in questi ultimi anni. Non è così. Potrà sembrare paradossale – e non lo è – ma la reazione di Jean-Claude Juncher e Joaquín Almunia, cui si è aggiunta ieri quella dello stesso segno di Jean-Claude Trichet, è ben più dura delle reprimende con minaccia di multa che ci siamo presi quando avevamo sforato il tetto del 3% del deficit-pil. “Siete fuori dal Patto”: oggi la minaccia – mortale, appunto – è di cacciarci dall’euro, sulla base del principio che in una fase di crescita economica del 2% il deficit deve tendere a zero e il debito scendere sotto il 100% del pil in tempi molto rapidi.
Chi non prende sul serio questa infausta ipotesi, al pari di chi negli anni scorsi ha sottovalutato il “vincolo europeo” – il giudizio di “ortodossia da ultrà” della Ue formulato dal ministro Padoa-Schioppa non è dissimile dai tanti dello stesso tenore espressi da Giulio Tremonti quando sedeva sulla medesima poltrona, salvo definire oggi “suicida” non rispettare il Patto comunitario – commette un errore esiziale: non comprendere che siamo un paese a rischio, e che Eurolandia, e in particolare il nuovo asse Parigi-Berlino che Sarkozy e Merkel stanno ricostruendo, non ha più né voglia né interesse a sopportare il fardello dei conti pubblici italiani.
Nessuno, infatti, ha ancora ben compreso che deficit e debito non sono più solo nostri, ma dell’intero club della moneta unica, e che contravvenire alla parola data sulla discesa di mezzo punto all’anno del deficit-pil – per scelta preventiva, come si fa nel Dpef, e non “involontariamente” a consuntivo – è atto che produce una totale perdita di credibilità che non potrà non produrre conseguenze.
Anche sulle pensioni, il dibattito sullo “scalone” e sul costo di una sua eventuale rimozione, o riduzione a scalini, sembra non cogliere l’essenza vera della questione: intorno all’età pensionabile si gioca al partita della modernità di questo paese maledettamente conservatore. Quella previdenziale, infatti, non è solo una questione di conti pubblici, e neppure soltanto di sostenibilità finanziaria del sistema nel medio-lungo periodo – per fortuna la “gobba” comincia a scendere intorno al 2040 – ma più complessivamente di assetto della società. Non c’è solo un problema di costo del welfare, ma di suo modello in funzione della qualità della vita che si prospetta ai cittadini. E oggi costringere a uscire dal mercato del lavoro (ufficiale) chi ha 57 o anche 60 anni è una scelta anti-storica, un atto contro l’evoluzione moderna degli stili di vita. Per questo anche la legge Maroni – che siamo costretti a difendere visto che ci sono forze che vogliono cancellarla – è insufficiente, visto lo scarso coraggio con cui si è affrontato sia l’innalzamento dell’età, sia i suoi tempi di entrata in vigore (furbescamente rinviati alla legislatura successiva), sia infine per la mancata parificazione uomo-donna. Dunque, bisogna dire con chiarezza che la battaglia tra i riformisti a 125 volts (di entrambi i poli) e i massimalisti che vogliono riportare indietro le lancette della storia, è un battaglia di retroguardia, che lascia ben poche speranze di trasformazione profonda al paese più vecchio (in tutti i sensi) del mondo.
Allora, se così stanno le cose, lo scenario politico che si presenta ai nostri occhi appare davvero desolante. Perchè, se da un lato gli esponenti del nascente Partito Democratico oscillano tra chi tace e chi – come D’Alema, Amato, Dini – predica bene ma non razzola conseguentemente, dall’altro le accuse di gran parte dell’opposizione, a cominciare da Silvio Berlusconi, sembrano esclusivamente finalizzate ad andare alle elezioni, che certo non sono lo strumento che consente di fare quelle scelte di politica economica che la scorsa legislatura in grande misura o sono mancate o sono state sbagliate. Insomma, che il governo Prodi vada a casa il prima possibile è un’esigenza sacrosanta, ma che tutto si risolva nell’ennesimo scambio di ruoli tra i due poli del nostro sgangherato bipolarismo francamente renderebbe la cosa del tutto inutile. A casa deve andare il sistema politico che ci ha portato fin qui, e che oggi vede appunto fronteggiarsi riformatori all’acqua di rose contrapposti ad un partito trasversale della conservazione, che unisce massimalisti di sinistra e populisti di centro-destra. Per uscire da questa triste alternativa, bisogna che i veri riformisti prendano il coraggio a due mani e si assumano la responsabilità di un’iniziativa politica – fuori dagli schemi – su temi decisivi per il futuro del Paese, come appunto la permanenza nell’euro (che dipende dalla finanza pubblica) e la creazione di un nuovo stato sociale (di cui le pensioni sono elemento decisivo). Se ci siete, battete un colpo.
Chi non prende sul serio questa infausta ipotesi, al pari di chi negli anni scorsi ha sottovalutato il “vincolo europeo” – il giudizio di “ortodossia da ultrà” della Ue formulato dal ministro Padoa-Schioppa non è dissimile dai tanti dello stesso tenore espressi da Giulio Tremonti quando sedeva sulla medesima poltrona, salvo definire oggi “suicida” non rispettare il Patto comunitario – commette un errore esiziale: non comprendere che siamo un paese a rischio, e che Eurolandia, e in particolare il nuovo asse Parigi-Berlino che Sarkozy e Merkel stanno ricostruendo, non ha più né voglia né interesse a sopportare il fardello dei conti pubblici italiani.
Nessuno, infatti, ha ancora ben compreso che deficit e debito non sono più solo nostri, ma dell’intero club della moneta unica, e che contravvenire alla parola data sulla discesa di mezzo punto all’anno del deficit-pil – per scelta preventiva, come si fa nel Dpef, e non “involontariamente” a consuntivo – è atto che produce una totale perdita di credibilità che non potrà non produrre conseguenze.
Anche sulle pensioni, il dibattito sullo “scalone” e sul costo di una sua eventuale rimozione, o riduzione a scalini, sembra non cogliere l’essenza vera della questione: intorno all’età pensionabile si gioca al partita della modernità di questo paese maledettamente conservatore. Quella previdenziale, infatti, non è solo una questione di conti pubblici, e neppure soltanto di sostenibilità finanziaria del sistema nel medio-lungo periodo – per fortuna la “gobba” comincia a scendere intorno al 2040 – ma più complessivamente di assetto della società. Non c’è solo un problema di costo del welfare, ma di suo modello in funzione della qualità della vita che si prospetta ai cittadini. E oggi costringere a uscire dal mercato del lavoro (ufficiale) chi ha 57 o anche 60 anni è una scelta anti-storica, un atto contro l’evoluzione moderna degli stili di vita. Per questo anche la legge Maroni – che siamo costretti a difendere visto che ci sono forze che vogliono cancellarla – è insufficiente, visto lo scarso coraggio con cui si è affrontato sia l’innalzamento dell’età, sia i suoi tempi di entrata in vigore (furbescamente rinviati alla legislatura successiva), sia infine per la mancata parificazione uomo-donna. Dunque, bisogna dire con chiarezza che la battaglia tra i riformisti a 125 volts (di entrambi i poli) e i massimalisti che vogliono riportare indietro le lancette della storia, è un battaglia di retroguardia, che lascia ben poche speranze di trasformazione profonda al paese più vecchio (in tutti i sensi) del mondo.
Allora, se così stanno le cose, lo scenario politico che si presenta ai nostri occhi appare davvero desolante. Perchè, se da un lato gli esponenti del nascente Partito Democratico oscillano tra chi tace e chi – come D’Alema, Amato, Dini – predica bene ma non razzola conseguentemente, dall’altro le accuse di gran parte dell’opposizione, a cominciare da Silvio Berlusconi, sembrano esclusivamente finalizzate ad andare alle elezioni, che certo non sono lo strumento che consente di fare quelle scelte di politica economica che la scorsa legislatura in grande misura o sono mancate o sono state sbagliate. Insomma, che il governo Prodi vada a casa il prima possibile è un’esigenza sacrosanta, ma che tutto si risolva nell’ennesimo scambio di ruoli tra i due poli del nostro sgangherato bipolarismo francamente renderebbe la cosa del tutto inutile. A casa deve andare il sistema politico che ci ha portato fin qui, e che oggi vede appunto fronteggiarsi riformatori all’acqua di rose contrapposti ad un partito trasversale della conservazione, che unisce massimalisti di sinistra e populisti di centro-destra. Per uscire da questa triste alternativa, bisogna che i veri riformisti prendano il coraggio a due mani e si assumano la responsabilità di un’iniziativa politica – fuori dagli schemi – su temi decisivi per il futuro del Paese, come appunto la permanenza nell’euro (che dipende dalla finanza pubblica) e la creazione di un nuovo stato sociale (di cui le pensioni sono elemento decisivo). Se ci siete, battete un colpo.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.