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Public Policy

Bonino ministro diversa da Emma attivista

Doveri istituzionali in primis

Le lacune dello sviluppo cinese per i diritti umani colmabili con interventi economici

di Enrico Cisnetto - 18 settembre 2006

Emma Bonino voltagabbana? Non trovo per nulla fondate le critiche rivolte dai radicali che militano nella Cdl alla titolare del Commercio Estero – ce ne fossero ministri così – accusata di essersi disinteressata della questione dei diritti umani in Cina in occasione della missione di governo e Confindustria, dimenticando le molte battaglie che da militante aveva ingaggiato contro un regime oppressivo come quello di Pechino. Se infatti era perfettamente logico – e giusto – che l’attivista radicale Emma scendesse in piazza per il Dalai Lama o contro Tiennamen, il ministro Bonino non può certo fare la stessa cosa. E questo per il combinato disposto tra il ruolo istituzionale che ricopre e gli interessi legittimi che rappresenta. Cioè quelli di un Paese e di un capitalismo che hanno dormicchiato mentre il dragone cinese cominciava la sua tumultuosa crescita, e che dunque hanno perso molte chance per agganciare il loro treno. E che soltanto oggi, con colpevole ritardo, si accorgono che la Cina – che insieme agli Usa conta per il 50% dell’output economico globale – è la quarta forza economica del pianeta, con i suoi mille miliardi di dollari di riserve detiene il più elevato tesoro valutario del globo, e il suo prodotto interno lordo – che cresce ad un ritmo tra il 7% e il 10% l’anno dal 1980 – vale un quarto di quello americano, e ha superato quello francese e quello inglese. Non solo: il surplus della sua bilancia commerciale è salito a 18,8 miliardi di dollari in agosto (record assoluto), e nei primi 8 mesi dell’anno l’avanzo commerciale accumulato è stato di quasi 96 miliardi di dollari. Insomma, la Cina è una realtà con la quale bisogna fare i conti soprattutto dal punto di vista economico, e nella quale l’iniziativa privata continua a crescere. E siccome il miglior modo per difendere i diritti umani è lasciar progredire il capitalismo, visto che è con lo sviluppo economico che avanza la democrazia, ecco che promuovere l’integrazione economica tra Italia e Cina fa bene a noi e fa bene al popolo cinese. Per averne la controprova, basta guardare alla storia recente della Russia: dopo il crollo del comunismo è stato instaurato un regime “democratico”, senza che prima il sistema economico fosse pronto a un tale passaggio. Il risultato è che oggi il paese ha imboccato una deriva autoritaria, mentre l’inflazione è alle stelle e il suo pil è pari al 33% del livello medio dei Paesi del G7, mentre il pil pro-capite secondo i valori di cambio scende al 15% dello stesso livello. L’ennesima dimostrazione, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che la democrazia non si regge su piedi d’argilla, e che senza solide basi economiche anche il sistema politico più funzionale del mondo non può che implodere.
Certo, Della Vedova e Taradash hanno ragione quando affermano che il percorso verso l’occidentalizzazione intrapreso dalla Cina non è ineluttabile. Ma il modo migliore perché non si blocchi è proprio quello di lasciare il più possibile aperte le vie del commercio. E tessere un filo che tenga insieme il business e l’impegno a far rispettare i diritti fondamentali – magari proprio attraverso quei vincoli creati dall’interdipendenza economica – è il modo migliore affinché il percorso cinese verso la democrazia, necessariamente a tappe vista la situazione geopolitica, non si arresti.

Pubblicato sul Messaggero del 17 settembre 2006

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