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Triste realtà: spezzata l’unità morale del Paese

Divisione esistenziale e antropologica

Disagio e preoccupazione dopo le elezioni più incerte della storia repubblicana

di Angelo Pappadà - 13 aprile 2006

Le due Italie, conviventi forzate ed ostili, esistono davvero. Lo sospettavamo, anche se facevamo finta di non vederlo, ma ora ne abbiamo la rappresentazione plastica, per così dire. Gli italiani sono divisi, non per ideologia e nemmeno sui valori in senso stretto ma esistenzialmente, antropologicamente. Non era mai successo se non, al Nord, dopo il 25 aprile del ‘45: ma allora la linea di faglia che correva tra fascisti e antifascisti riguardava solo le minoranze combattenti. Il 9 e 10 aprile 2006 tutte le tradizionali spaccature del Paese, quelle tradizionali e quelle più recenti, si sono catastroficamente allineate, complice una classe dirigente incapace di parlare un linguaggio che non sia quello della pura irrazionalità, del sogno, del desiderio. E gli italiani si sono divisi con voluttà, sono corsi in massa alle urne non per un sussulto di senso civico e nemmeno per le proprie preoccupazioni personali, ma per urlarsi in faccia il reciproco disprezzo, l’insofferenza per i tratti esteriori del vicino che si crede di riconoscere facilmente, alla vista. Sono percezioni collettive che sfociano nell’allucinazione, che si sovrappongono alle “normali” caratterizzazioni basate sul censo o sullo stile di vita e le radicalizzano. Sono allucinazioni causa ed effetto al tempo stesso del declino italiano: impediscono di pensare al futuro, di guardare al mondo, di ritrovare uno slancio per tutta la società. Al tempo stesso, sono consolatorie, perché consentono di scaricare su un nemico esterno le proprie frustrazioni, individuali e di gruppo: esemplare, sul lato delle ossessioni della sinistra, “Il Caimano” di Nanni Moretti, con quei bagliori finali di guerra civile, inconsciamente invocata pur di porre fine alle insostenibili aporie di una vita borghese.
Si dice che anche i democristiani e i comunisti si detestavano, nel ’48: ma il riconoscimento di un comune retroterra popolare e contadino li trattenne dall’organizzare massacri, e poi le linee di frattura di allora correvano in tutta l’Europa. Nuove tragedie sarebbero state evitate con le armi della politica, e del ricordo di dolori comuni. La guerra civile dell’Italia del XXI secolo è (fortunatamente) solo un truculento inseguirsi di parole irresponsabili, capaci però di avvelenare animi già gravati da difficoltà obiettive.
La classe politica della Seconda Repubblica, naturalmente, è colpevole di avere alimentato e rappresentato questa frattura, quasi fossero presidenti di squadre di calcio di fronte a tifosi ultrà (ogni riferimento è puramente casuale). Berlusconi, innanzitutto, cui non riusciamo a perdonare non tanto il conflitto di interessi, quanto la deliberata confusione tra forma e contenuto della comunicazione politica. Ma anche il bonario curato il quale, alle tre di notte e di fronte al disastro, alza le braccia al cielo gridando “abbiamo vinto” e “adesso possiamo voltare pagina”.
L’unità morale del Paese si è spezzata, e rimetterne insieme i cocci richiederà pazienza, passione e molta lucidità. Speriamo di averne il tempo.

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