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Lo spunto da uno studio di Gustavo Visentini

Diritto, etica e affari

La legge garantisce i rapporti economici, ma se mal applicata può divenire fonte di immoralità

di Davide Giacalone - 25 giugno 2005

Sono sicuro che a molti sembrerà azzardato od ozioso, e magari entrambe le cose, accostare il tema dell’etica a quello degli affari. Il tema, invece, non solo è interessante, ma serve anche a misurare il grado di maturazione del nostro mercato, facendone risaltare i punti di grave debolezza.

L’occasione per riflettere giunge da uno dei quaderni della Nextam Partner, una società di gestione del risparmio, che pubblica uno studio del suo presidente, Gustavo Visentini. Occasione ghiotta, perché scrivendo da professore Visentini si occupa anche di se stesso presidente, e pubblicandone lo studio la Nextam interviene anche sulle condizioni del mercato nel quale opera. Ma non è il pirandellismo della faccenda, quello che interessa.

Per Visentini “è difficile immaginare, con riguardo agli affari, un principio etico che non sia conforme al principio etico accolto dal diritto. L’etica degli affari è l’etica del rispetto dei patti; il rispetto dei patti è principio codificato dal diritto. Perciò l’etica degli affari è l’etica della legalità”. E’ certamente vero, ma l’etica da cui discende la legge non è mai un’etica astratta, bensì il frutto di un’evoluzione (o involuzione) culturale, politica e civile. La legge raccoglie quel che in quel momento la maggioranza parlamentare considera “morale”. Quella morale è, però, mobile e mutevole, e, per chi abbia difficoltà a digerire una simile realtà, basterà porre mente alle leggi sui comportamenti personali per rendersene conto: un tempo l’adulterio era un reato, un tempo un pretore poteva disporre il sequestro di manifesti che mettevano in evidenza dei glutei. Oggi ci sembra quasi incredibile, sol perché la morale accettata, e codificata, cambia. La legge, dunque, tiene in sé un (pur mutevole) contenuto morale.

Ma la legge è lettera morta, è parola persa se chi la viola non incorre in una sanzione. E qui c’imbattiamo in una prima, apparente, contraddizione logica: la legge è anche messaggio morale, ma la condanna per violazione di una legge non è mai una condanna morale. La contraddizione è solo apparente, perché mentre la legge è una codificazione generale, la condanna è solo il risultato tecnico di un procedimento penale, che non può e non deve avere valore morale, bensì produrre una pena. Di converso, ed a conferma, un’assoluzione non è una certificazione di moralità: anche le cronache recenti hanno raccontato di procedimenti risoltisi con le assoluzioni, che pur non hanno cancellato l’immoralità, o, meglio, la devianza, dei fatti portati all’attenzione del giudice.

Visentini avverte, giustamente, che quando si verifica un contrasto fra “etica particolare e diritto” è il secondo a prevalere. La prevalenza, anche in questo caso, deve essere riferita al caso specifico, al determinato comportamento, e la sua effettività è frutto del corso della giustizia. Ma cosa succede se la giustizia non funziona? Ci sono fior di finanzieri, in Italia, che hanno in corso procedimenti per insider trading, o per bancarotta. Il loro diritto alla presunzione d’innocenza è inviolabile, e ci mancherebbe. Ma l’onta dell’accusa è pesante. Come si conciliano le due cose? Si conciliano con procedimenti equi e celeri, così come, oltre tutto, vuole il diritto internazionale e la Costituzione. Cosa succede se questo diritto viene calpestato, così come è quotidianamente calpestato da una giustizia che impiega decenni per giungere ad un verdetto? Succede che la valenza morale dell’intero diritto va a farsi benedire.

Succede anche, purtroppo, che se il finanziere incriminato continua ad avere successo, se il sospetto che usi mezzi ed informazioni illecite non giunge mai ad una condanna, ma alimenta il sospetto ed il mito, alla fine si ingenererà la convinzione che quel Tizio sia un gran furbacchione, e lui stesso farà a meno di ripetere, se proprio non è necessario, di considerarsi innocente. Immorale della favola: la giustizia che non funziona produce immoralità.

In questa situazione, possono dei codici di autoregolamentazione risultare efficaci? Visentini si mostra scettico, anzi, nelle pagine finali adombra l’ipotesi che siano anche delle prese in giro, dei modi per rendere ancora meno difendibile la posizione del cliente che venga danneggiato. Conclusione amara, ma condivisibile solo in parte. Cos’è un codice d’autoregolamentazione? E’ evidente che chi lo adotta non si sottrae certo al dominio della legge, quindi deve intendersi che, con scelta autonoma, decide di non consentirsi quel che pure la legge consente. Faccio un esempio: non è proibito usare dei conservanti nella preparazione di prodotti alimentari, ma se si dice che i propri piselli sono “senza conservanti” il consumatore pretende che non ci siano, e si sente imbrogliato se ci sono.

Dove fa valere il suo diritto violato? Oggi gli si offre la possibilità di chiedere che il produttore sia condannato per pubblicità ingannevole. Troppo poco. Credo, invece, che quel genere di autolimitazione configuri un vero e proprio vincolo contrattuale, violando il quale il produttore non è un ingannatore pubblicitario, ma un truffatore. Se il diritto dei tribunali funzionasse, questo sarebbe il terreno ideale per le associazioni dei consumatori. Non funzionando quel diritto non solo i consumatori ne vengono danneggiati, ma alcune di quelle associazioni finiscono con l’emanare un qualche afrore ricattatorio, o anche solo banalmente confusionario. Credo che, in Italia, non vi sia ancora piena consapevolezza di quali guasti enormi derivino dall’inefficienza della giustizia.

I codici d’autoregolamentazione spesso riguardano, ed è il caso della Nextam Partners, società che non mettono sul mercato prodotti commestibili, ma servizi finanziari. Affinché abbiano un valore non inutilmente declamatorio sarebbe già sufficiente esistesse un giornalismo economico degno di questo nome. Se oltre a guardare i risultati di gestione (che sono importanti) si guardasse anche alla rispondenza fra il predicato ed il praticato, forse molti eviterebbero di parlare e scrivere a sproposito e, allo stesso tempo, chi si attiene al promesso ne verrebbe premiato in credibilità.

Affinché esista un rispettabile giornalismo economico non si deve puntare sull’acutezza mentale e la probità personale di quanti firmano gli articoli, ma sulla concorrenza fra prodotti editoriali diversi. Se, invece, come capita da noi, tutti i prodotti editoriali dipendono dai medesimi investitori pubblicitari, è davvero difficile credere questo non abbia un riflesso sul quello che poi si fa leggere agli unici che il giornale lo pagano di tasca propria.

In fondo, tutto sommato, non c’è diritto o morale che tengano se non in un mercato aperto e concorrenziale, nel quale sia interesse degli uni mettere in evidenza le magagne dell’altro. Ciò in cui si può riporre fiducia è sempre quello che diceva il vecchio Adam: non la buona volontà o l’eticità dei singoli, ma il loro diritto di perseguire la propria convenienza. Su questo Visentini non c’intrattiene, ma penso ne convenga.

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