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Ultima chiamata per la città bifronte

Diamo spazio allo “sviluppo stellare”

Non si può fallire. E' ora che Napoli rinasca

di Enrico Cisnetto - 14 giugno 2011

Ieri mattina si svolgevano, in contemporanea, due tra le più importanti assemblee di industriali dopo quella di Confindustria, che c’è stata il 26 maggio: Milano e Napoli. Ero invitato ad entrambe, ma ho scelto quella partenopea. I motivi sono tanti, ma uno su tutti: o Napoli ce la fa, o l’Italia non ce la fa. Meglio, dunque, andare a vedere cosa bolle nella pentola di quella società civile che qualche settimana fa, alle amministrative, ha dato una sonora sberla (parole di Maroni) a Berlusconi e al suo “governo del fare” (molto annunciato e poco attuato).

Così, ancora una volta, ho potuto vedere e vivere in presa diretta le “due facce” di Napoli: quella della modernità e dell’efficienza – che c’è e che ci sarà – e quella del degrado e dell’arretratezza. Ho preso di buon’ora il primo dei 23 Frecciarossa che ogni giorno collegano Roma con Napoli (altrettanti ce ne sono sulla tratta inversa, molti dei quali sono da e per Milano), e in 70 minuti ero a destinazione in una stazione pulita e accogliente, con una ricca offerta commerciale. Ottimo.

Anche fuori le cose vanno meglio di prima: la piazza, pur essendo ancora parzialmente chiusa per lavori, ha finalmente lo spazio per i pedoni e per l’attesa dei taxi. Ma ecco la prima e più violenta contraddizione: l’assemblea degli industriali si tiene in un posto bellissimo, l’Accademia dell’Aeronautica di Pozzuoli, ma per arrivarci facciamo lunghi tratti di strade che sembrano trincee scavate tra i rifiuti. C’è tanta gente, alcuni manager di primissimo piano che vengono da Roma, l’ambasciatore americano Thorne, e la presenza del Capo dello Stato rende solenne l’occasione. Si sente che c’è ottimismo. E in effetti, ascoltando la relazione del presidente Graziano e parlando con gli imprenditori se ne capisce il motivo: i grandi progetti non sono più sogni nel cassetto, ma realtà in corso d’opera. Quali? Naplest, porto, stazione ferroviaria, metrò, aeroporto, Pompei. Iniziative diverse, ma con un forte grado di interazione tra loro.

Quella più significativa (2,3 miliardi di investimenti privati) e più avanti è di certo Naplest, cioè il complesso di interventi (oltre una ventina) che pur essendo autonomi si sono riuniti (soprattutto per l’impegno di Marilù Faraone Mennella) per da vita ad un unico mega-progetto di riqualificazione urbanistica, sociale ed economica dei quartieri di Poggioreale, Barra, San Giovanni e Ponticelli. La zona est di Napoli, appunto, la più vasta e degradata, da sempre oggetto di inutili e frustranti tentativi di rilancio.

Esattamente un anno fa di questi tempi Naplest fu presentato, e da allora i diversi progetti sono andati avanti in modo spedito (se si considerano i tempi italiani, e ancor più campani, si potrebbe dire in modo fulmineo). Per esempio, la ristrutturazione del porto (400 milioni in due tranche), che coinvolge i cinesi di Shangai, è già a buon punto nonostante i soliti freni burocratici, ed è merito del presidente dell’Autorità portuale, Luciano Dassatti, se fra pochi giorni i lavori saranno assegnati.

E container e navi sono la migliore garanzia di attività commerciali, di indotto, e magari di opportunità cantieristiche per risolvere i problemi della presenza in Campania di Fincantieri. Quindi c’è il completamento della stazione ferroviaria, e il suo collegamento, tramite linea metropolitana, con Capodichino. La stessa trasformazione dell’aeroporto, a buon punto per quanto riguarda la logistica interna e i servizi, deve ora completarsi con la non meno importante opera di riqualificazione della zona antistante e il collegamento con il centro città.

E il ritorno del capitale della Gesac in mani italiane, grazie all’intervento del fondo F2i – guidato da Vito Gamberale, è il più grande in Italia per le reti e le infrastrutture – appare come garanzia che gli investimenti saranno fatti. E se lo scalo aereo attrae voli e passeggeri, è più facile che anche le 2500 aziende francesi che vogliono consorziarsi per supportare la ristrutturazione di Pompei e per lanciare il progetto turistico del “distretto archeologico vesuviano”, facciano sul serio.

Insomma, tanti progetti, in corso d’opera e da realizzare, che possono finalmente rompere quella sorta di “maledizione” che negli ultimi due decenni ha bloccato le reiterate ma vacue ambizioni di rilancio di Napoli, e non solo. Maledizione che aveva un suo perché, però. Il problema, infatti, stava nel tipo di interventi: operazioni calate dall’alto, di stampo dirigista, dove le priorità non erano la riuscita e le necessità dello sviluppo ma il fiorire di quella “economia della tangente” evocata ieri – contro la quale è partito l’applauso più forte dell’assemblea dell’Unione Industriali – e tutto il cotè assistenziale che si porta dietro.

Più in generale, quella cultura dell’irresponsabilità che è la causa delle tante (troppe) altre facce della medaglia che ancora ci sono: dalla sicurezza che ancora manca perché la battaglia contro la criminalità organizzata e spicciola non è stata vinta al già ricordato scandalo dei rifiuti, passando per la lentezza con cui si procede per alcuni progetti che languono da troppo tempo, come per esempio la ridefinizione di Bagnoli, ricordata anche da Napolitano come simbolo di “inconcludenza”. Ora quel mondo è fallito, definitivamente.

Non fosse altro perché sono finiti i soldi. Ora c’è spazio solo per operazioni di mercato e nel mercato, basate su una logica che potremmo chiamare di “sviluppo stellare”: riqualificazione urbana, controllo di legalità, iniziative imprenditoriali coerenti ad un progetto di sviluppo, riqualificazione del tessuto sociale e civile. Graziano ha parlato di “ultima chiamata”. Ha ragione: non si può fallire, pena la discesa nei peggiori gironi dell’inferno. Gli imprenditori ne hanno preso coscienza. Sarà bene che le istituzioni, vecchie e nuove, facciano altrettanto.

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