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Public Policy

Italia: il tallone di Achille dell’Eurolandia

Declino bipartisan

Serve un progetto Paese per costruire la Terza Repubblica

di Enrico Cisnetto - 07 dicembre 2007

L’Ocse ci conferma che il divario dell’economia italiana con l’area euro è destinato a consolidarsi. Assodato ormai che il pil quest’anno salirà dell’1,8% in Italia e del 2,5% in Eurolandia, questo stesso differenziale di crescita di sette decimi di punto si avrà anche nel biennio 2008-2009, quando noi porteremo a casa un misero +1,3% contro il +2% o poco meno dell’area della moneta unica. Insomma, che la tendenza sia al rialzo o che la congiuntura sia di rallentamento poco importa, perchè la nostra economia è ormai da dieci anni stabilmente indietro di quella distanza: tra il 1997 e il 2006 noi siamo cresciuti in media dell’1,4% all’anno, mentre Eurolandia del 2,2%. La quale a sua volta è stata nel decennio di un punto all’anno sotto gli Usa (3,2% di media), la cui crescita è dunque superiore a quella italiana di 2,3 volte. Se poi a questo si aggiunge che il forte riassorbimento della disoccupazione – unica variabile positiva di questi ultimi anni – lo abbiamo pagato in termini di performance di produttività “molto povere” (definizione Ocse) tanto che il pil per lavoratore è oggi inferiore a quanto fosse nel 2000, se ne deduce che il fallimento del bipolarismo della Seconda Repubblica è misurabile proprio con questi dati, che riguardano le due legislature “piene” che sono state ad appannaggio del centro-sinistra e del centro-destra, oltre a questo fin troppo lungo scorcio di ritorno al prodismo.

E che il sistema politico che nascerà sulle ceneri di questo – cui ha definitivamente dato fuoco l’astuto Bertinotti – proprio da qui, dal consolidato deficit di crescita rispetto a Europa e Usa, dovrà partire se si vorrà che alla Terza Repubblica tocchi miglior sorte di quella toccata alla Seconda rispetto alla Prima. Qualche lettore mi segnala una mia testardaggine nel voler sempre riportare ogni valutazione o ragionamento alla questione politica. A costo di apparire tetragono, confermo. Senza un progetto paese che solo la politica può e deve elaborare, l’Italia non è in grado di uscire dal declino economico in cui è finita, e tantomeno dal degrado civile e dalla disgregazione sociale – a questo proposito sono curioso di scoprire cosa ci dirà oggi il Censis nel suo 41esimo rapporto – che da esso sono derivati. E la cosa che più mi preoccupa dello scenario politico che si sta aprendo – e che apparentemente sembrerebbe avere risvolti positivi, a cominciare dalla fine dello scontro permanente tra le due coalizioni del bipolarismo scellerato – è proprio la totale assenza di un benché minimo confronto tra i protagonisti della “svolta” sullo stato di salute del Paese.

Il declino e il degrado italiani non sono mai stati non dico studiati, ma neppure accettati come diagnosi condivisa per poi indicare al Paese le terapie necessarie. Il paradosso è che le stesse forze che più hanno concorso a determinare il fallimento di questa lunga stagione politica, inducendo anche le energie migliori del Paese alla depressione, ora chiudono una fase e ne aprono un’altra, che per loro ammissione dovrebbe essere di segno opposto, senza né un briciolo di autocritica né un confronto programmatico. Si sono disfatte le coalizioni – e Dio solo sa quanto ce ne fosse bisogno – ma tutto sta avvenendo sul puro terreno della “politica-politica”, quella che il Cavaliere con un insopportabile disprezzo per le faticose regole e prassi della democrazia chiama “teatrino”, senza alcuna attenzione per i problemi reali, senza nessuna ricetta per rimettere in moto – sul piano pratico come su quello psicologico – il paese “fermo”. Persino sul piano degli ancoraggi simbolici, o ci si ferma pigramente alla classica dicotomia “destra-sinistra” – nonostante che Blair in versione guru ci sia venuto ad insegnare come l’ottocentesco schema non sia più in grado di leggere la realtà del mondo globalizzato, e dunque tantomeno di offrire indicazioni il futuro – oppure si scade in un pragmatismo di quart’ordine, fine a se stesso, privo di riferimenti culturali e che si esaurisce nel fideismo leaderistico verso chi lo esprime.

Insomma, non basta raccontare che la mano invisibile del mercato sistemerà tutto – quello che Tremonti chiama il mercatismo – ma neppure appellarsi alla vecchia ricetta keynesiana, messa in crisi dal venir meno della coincidenza tra i confini delle economie e quelli degli stati che la globalizzazione ha comportato. Il silenzio assordante della politica italiana di fronte alla complessità della recente crisi finanziaria originata dal crack del mercato dei subprime – a proposito, cosa dicono i miei amici “liberisti scolastici” del fatto che a Londra si ipotizza un salvataggio pubblico della Northern Rock? – è la certificazione dell’impotenza con cui Veltroni e Berlusconi, al pari di Prodi, affrontano quella che dovrebbe essere la “rupture”. Ma non meno assordante è anche il silenzio degli “altri”, di coloro che non accettano di passare dal bipolarismo coatto ad un bipartitismo non meno coatto. Sarebbe interessante, per esempio, che tra elugubrazioni sulla “cosa bianca” e “colazioni terziste” (come quella di ieri tra Montezemolo, Casini e Fini) i residuali rappresentanti dei tre grandi filoni di pensiero e di esperienza politica – quello cattolico-popolare, quello laico-liberaldemocratico e quello socialista – che ancora predominano in Europa e che in Italia sono stati emarginati a favore dei “partiti personali”, si facessero avanti con qualche proposta su come affrontare il mix esplosivo di declino e degrado. Perchè le identità sono senz’altro più nobili dei “nuovismi”, ma guai se nascondono un pensiero riformatore debole.

Pubblicato su Il Foglio di venerdì 7 dicembre 2007

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