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Debito e ricchezza finanziaria

di Gianfranco Polillo - 26 maggio 2004

L'Italia vive uno strano paradosso. E', al tempo stesso, prodiga e virtuosa. Ha un grande debito pubblico, inferiore solo al Giappone. Ma un indebitamento del settore privato estremamente contenuto: il più basso tra i paesi del G7. Da un lato uno Stato spendaccione. Dall'altro famiglie ed imprese formichine, che spendono poco e risparmiano molto. Peccato quindi che si insista solo su una faccia - quella peggiore - della medaglia. Al di là di ogni altra cosa, questa rappresentazione parziale impedisce la possibilità di pensare ad un progetto per il sistema - paese, in grado di risolvere contestualmente sia i problemi della finanza pubblica che quelli dello sviluppo. Problemi intrecciati. Dopo quasi 10 anni di risanamento finanziario mancato, sarebbe forse il caso di prendere atto di una verità elementare. L'unico vero antidoto alla "crisi fiscale dello Stato" è lo sviluppo. Fuori da questa prospettiva non esiste risanamento finanziario, ma solo un'inarrestabile declino.

E' giusta l'analisi? Partiamo dai dati. L'economia italiana, nel suo complesso, è la meno indebitata dei paesi del G7. Non corre, pertanto, alcun rischio sistemico. L'Italia non solo non è l'Argentina, ma non è nemmeno il Giappone, che in passato ha pagato un duro prezzo per il moral hazard dell'eccessivo indebitamento aziendale: ancora pari al 120 per cento del PIL, il doppio di quello italiano. Che, a sua volta, è il più basso in assoluto. A dimostrazione di quanto sia stata oculata la gestione finanziaria delle aziende.

Estremamente basso è anche il ricorso, da parte delle imprese italiane, alle forme di finanziamento diretto sul mercato (bonds, obbligazioni, ecc.). Con una percentuale (2,3% del totale delle passività) che è meno di un terzo di quella francese e di un quarto di quella anglosassone e giapponese. Fatto consolante se si considerano gli abbagli presi dalle società di rating nel caso dei grandi scandali internazionali. Da Enron a Parmalat e Cirio. Insomma rispetto al passato ed in particolare agli anni '70, il sistema imprenditoriale italiano, benché scarsamente competitivo, ha margini finanziari abbondanti per crescere e svilupparsi. Ciò che manca non sono le risorse, quanto le prospettive più generali. Quel sentiero che le istituzioni dovrebbero indicare e sforzarsi di battere.

La famiglie italiane non sono da meno. Hanno risparmiato come formiche. Nel 2003, secondo valutazioni ISTAT, i consumi sono cresciuti in media del 3,8 per cento; il risparmio del 5,8. Hanno subito, senza fiatare il crollo delle borse, limitandosi a cambiare le proprie preferenze. Dalle azioni ai depositi bancari per poi convergere sul tradizionale "mattone". Ma lo hanno fatto senza chiedere finanziamenti ulteriori, che si sono quasi dimezzati rispetto al picco relativo della fine del 1999, per poi risalire, ma solo lentamente, nel corso del 2002. Le case, gli italiani le acquistano in genere quasi in contante grazie ai risparmi accumulati. Comprimendo, se necessario, i possibili consumi. E' un danno per l'economia nel suo complesso. Ma anche la risposta necessitata al quadro di incertezze che ne caratterizza le dinamiche.

Quest'accumulo molecolare di ricchezza ha prodotto un miracolo che non trova eguali negli altri paesi occidentali. Nel 2002, secondo dati ISTAT, il 72,1 per cento delle famiglie viveva in case di proprietà. Nella più ricca America questa percentuale non arriva al 68 per cento. Il peso delle rate di ammortamento sul PIL, quale approssimazione del volume dei mutui contratti, è appena pari al 10 per cento, contro un valore medio dell'Unione europea quattro volte tanto (39 per cento del PIL). Le case possedute dagli italiani sono "ricchezza netta". Non hanno vincoli finanziari. O se li hanno, sono estremamente contenuti. Esiste, quindi, un capitale stabile nel tempo, più che indicizzato rispetto ai tassi di inflazione. Ed ancor più solido, perché immune dagli shock che possono essere provocati da un aumento dei tassi di interessi.

Questa stabilità di fondo non può essere trascurata, quando si guarda alle caratteristiche del sistema - paese. Al netto dei debiti, la ricchezza delle famiglie italiane è pari a circa 8 volte il reddito nazionale. E' il valore più alto in assoluto rispetto a Francia, Germania, Stati uniti, Inghilterra e Giappone. Percentuale che sarebbe ancora maggiore, se i prezzi delle abitazioni, in termini reali, fossero cresciuti come quelli degli altri paesi dell'Unione. Nel periodo 1980 - 2001, il loro incremento è stato, in media, pari all'1,2 per cento annuo. Contro il 3 per cento dell'Inghilterra, il 3,5 dell'Austria, il 4,2 della Spagna. Solo quelli tedeschi sono cresciuti meno (0,5 per cento). Ma in Germania predomina l'affitto, pari ad oltre il 60 per cento del totale.

L'Italia non balla, quindi, sul baratro dell'insolvenza e della crisi finanziaria. Al contrario: ci troviamo di fronte ad un paese fortissimo sul piano patrimoniale, anche se debolissimo su quello economico. Caratteristica che vale anche per lo Stato. La montagna di debito pubblico accumulato non ha come contropartita una spesa corrente fuori controllo. Dal momento ch'essa, al netto degli interessi, è di almeno 4 punti inferiore alle medie europee. Ma è la contropartita di un enorme patrimonio immobiliare che l'incapacità gestionale della mano pubblica rischia di disperdere o di lasciare deperire.

All'origine dell'incuria, culturale ancor prima che politica, che è alla base della mancata valorizzazione del patrimonio italiano, sono fatti complessi. Vi è innanzitutto un residuo, per così dire, contadino. L'accumulo di ricchezza finanziaria è vista essenzialmente come un elemento statico. Scisso e separato dalla dinamica dei processi reali. Quest'atteggiamento mostra una profonda incomprensione dei caratteri stessi della modernità. I processi di globalizzazione in atto sono essenzialmente guidati dalle grandi trasformazioni finanziarie. E' la finanza internazionale che, attraverso i processi di delocalizzazione, rende possibile il miracolo cinese o quello indiano. Ed è sempre compito dello finanza rendere equivalenti i diversi contenitori di ricchezza. Nei paesi più evoluti si passa indifferentemente dal possesso immobiliare a quello mobiliare, a seconda degli andamenti del ciclo economico. In Italia, invece, la ricchezza accumulata è una semplice assicurazione personale contro il rischio di default. Per il patrimonio immobiliare i lacci sono ancora più stringenti. La casa è stata vista in tutti questi anni, più come un servizio sociale - si pensi all'equo canone - che non come un investimento da valorizzare. Fenomeno alimentato a dismisura da una legislazione vincolistica che ha mortificato ogni logica di mercato.

Si è così ricostituita una sorta di "mano morta" che ha contribuito a deprimere il settore, e con esso, l'intera economia. Quando negli altri paesi - Stati Uniti, Regno Unito, Paesi Bassi, Irlanda ed Australia - il processo di monetizzazione del capitale contribuiva, in modo determinante, a sospingere in alto la domanda dei consumi. In questi paesi, la capacità di ricavare liquidità dal valore del patrimonio non ha portato necessariamente ad una sua dismissione. Nuovi strumenti finanziari, come le ipoteche di secondo grado, hanno consentito di poter utilizzare, durante il ciclo di vita, il naturale incremento del valore dell'abitazione. Senza dover necessariamente attendere, come avviene generalmente in Italia, il passaggio per successione. Grazie a questa mobilità, favorita da una fiscalità che penalizza le forme di possesso improduttivo ed incentiva le transazione, le famiglie hanno potuto organizzare meglio il proprio percorso di vita. Hanno potuto compensare temporanei sbalzi negli andamenti del reddito. Hanno usufruito di migliori condizioni di credito e ripartito i volumi di consumo e di risparmio in una dimensione temporale più ampia.

Il risultato ultimo di questa spinta verso la modernizzazione è stato un forte aumento del reddito nazionale. Si calcola che grazie alla monetizzazione, l'Australia abbia aumentato il proprio PIL di un punto percentuale, in ciascuno degli ultimi 4 anni. Gli Stati Uniti e l'Inghilterra hanno fatto di più. Qui l'incremento è stato di 2 punti percentuali. In Italia, vista la maggior dimensione della ricchezza immobiliare, le cose potrebbero andare ancora meglio. Basterà questo per uscire dalla crisi? Naturalmente: no. La sfida, lo dicevamo prima, è quella di un progetto per il sistema - paese. Per realizzare il quale occorreranno, tuttavia, risorse finanziarie adeguate che il disgelo di questa grande foresta pietrificata può contribuire a rendere disponibili.


Un lungo estratto di questo articolo è stato pubblicato da il "Sole - 24 ore" del 23 - 5 - 2004, con il titolo: "Casa, ricchezza da monetizzare"

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