L’inconsistenza di un discorso programmatico
“Dare una scossa” non vuol dir nulla
Contro la precarietà, quella vera, unapolitica economica che includa anche la flessibilitàdi Enrico Cisnetto - 19 maggio 2006
C’è un errore di fondo molto grave nell’approccio assunto dal governo Prodi nei confronti del tema cosiddetto della “precarietà”. E non riguarda solo il prospettato “superamento” – eufemismo per evitare di parlare esplicitamente di cancellazione – della legge Biagi, subito confermato dal neo ministro del Lavoro, Cesare Damiano. No, l’impianto culturale dentro cui è nata l’idea di riscrivere la legge 30 ci dice come il centro-sinistra non saprà sciogliere, al pari del centro-destra, i veri nodi del declino italiano. E non soltanto per colpa dell’ala massimalista della coalizione, ma soprattutto per difetto dei riformisti, il cui deficit di coraggio e la scarsa capacità di “lettura” delle conseguenze sull’Italia (e l’Europa) dei processi di trasformazione dell’economia mondiale, rappresentano un mix letale per le speranze di rilancio dello sviluppo.
Attenzione, non intendo affatto negare che esista un problema di precarietà, in particolare dei giovani, e più in generale di equità. Ma sono fermamente convinto che esso derivi dalla crisi del modello di sviluppo che la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione hanno provocato – o meglio, che il nostro mancato adeguamento a queste straordinarie trasformazioni epocali ha generato – e che si è tradotto nella sia crescita zero (congiunturale) sia nella perdita di competitività e nella marginalizzazione sui mercati (strutturale). Per carità, può darsi che le norme che discendono (più o meno bene) dal Libro Bianco scritto da Marco Biagi siano da sistemare – sicuramente vanno completate con la riforma degli ammortizzatori sociali e con la definizione delle tutele “in uscita” suggerite proprio dallo Statuto dei Lavori del professore ucciso dalle Br – ma è sicuro che queste pur serie questioni sono del tutto secondarie rispetto al nodo scorsoio che sta lentamente ma inesorabilmente soffocando il Paese. Insomma, la vera precarietà, presente e soprattutto futura, deriva dal declino, non dalla legge Biagi. O meglio, sta nel combinato disposto tra la fine del modello economico europeo – e in modo particolare della sua versione italica – e il deficit di consapevolezza che questo processo sia già in atto da tempo (piaccia o non piaccia si chiama declino) senza alcun coraggio di spiegarlo ai cittadini (specie ai giovani) e di conseguenza nessuna capacità di fronteggiarlo. Dunque, partire con le idee chiare sulla necessità del “superamento” della legge 30, lasciare fuori dal nuovo esecutivo il padre del “pacchetto Treu”, di cui la Biagi rappresenta la continuità, e viceversa affidarsi a misteriose capacità di “dare una scossa” al nostro sistema produttivo, come ha detto ieri Romano Prodi nel suo discorso programmatico – “il governo ritiene di avere politiche appropriate a questo fine” (meno male, ma quali sono?) – significa non aver capito nulla di come vada impostata la governabilità del Paese. A ben pensarci, si tratta dello stesso errore, speculare, commesso dal governo Berlusconi, che non ha messo in campo uno straccio di politica economica e industriale ma si è fatto vanto di aver varato la legge 30, cosa giusta ma avulsa dal più ampio contesto di un progetto-paese. Con il risultato che a furia di confondere la causa con la conseguenza, si è finito col criminalizzare gli strumenti di flessibilità individuati per rendere più dinamico il mercato del lavoro. E questo nonostante che dal sindacato vengano indicazioni più che ragionevoli, come quella avanzata dal neo-segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, che ha proposto di scambiare più flessibilità con più salario e, appunto, ammortizzatori. Invece, si guarda alla riforma Zapatero – non a caso lanciata subito dopo che la piazza francese ha imposto a De Villepin la resa sulla legge sul primo impiego – che pur essendo apprezzabile sul piano metodologico, per via dell’uso di incentivi e disincentivi che sono sempre da preferire all’imposizione pura e semplice, ha il torto di considerare normale (regolare) il contratto a tempo indeterminato e atipici (irregolari) tutti gli altri.
Al contrario, dovrebbe essere proprio la sinistra, almeno quella più moderna e riformista, a considerare la flessibilità un valore per l’individuo e una componente essenziale della modernizzazione del sistema economico, prima ancora che una modalità contrattuale. Cioè uno strumento fondamentale nella battaglia contro la vera precarietà, quella precarietà della nostra economia che la destra ha stupidamente negato e nascosto come polvere sotto il tappeto della propria inettitudine. Si dice: ma così evitiamo un nuovo sessantotto. Può darsi. Ma allora sono i giovani che farebbero bene a manifestare il loro disagio e le loro inquietudini spiegando a chi pretende di rappresentarli – dal sindacato conservatore (la Cgil) ai movimenti del “no a tutto” passando per la sinistra e la destra di governo “ignoranti” – che la questione non sta nel difendere lo status quo, bensì nel pretendere scelte politiche che vadano nella direzione di definire un nuovo modello di sviluppo e di trasformare lo stato sociale da sistema dei diritti a welfare delle opportunità. Nonché nell’incalzare un capitalismo vecchio e pigro a rinnovarsi, adeguandosi agli scenari globali, anziché continuare ad illudersi che la salvezza stia semplicemente in un costo del lavoro più basso, che al massimo può fornire alle imprese vittime della nuova competizione mondiale solo una breve (e inutile) boccata di ossigeno.
Pubblicato sul Foglio del 19 maggio 2006
Attenzione, non intendo affatto negare che esista un problema di precarietà, in particolare dei giovani, e più in generale di equità. Ma sono fermamente convinto che esso derivi dalla crisi del modello di sviluppo che la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione hanno provocato – o meglio, che il nostro mancato adeguamento a queste straordinarie trasformazioni epocali ha generato – e che si è tradotto nella sia crescita zero (congiunturale) sia nella perdita di competitività e nella marginalizzazione sui mercati (strutturale). Per carità, può darsi che le norme che discendono (più o meno bene) dal Libro Bianco scritto da Marco Biagi siano da sistemare – sicuramente vanno completate con la riforma degli ammortizzatori sociali e con la definizione delle tutele “in uscita” suggerite proprio dallo Statuto dei Lavori del professore ucciso dalle Br – ma è sicuro che queste pur serie questioni sono del tutto secondarie rispetto al nodo scorsoio che sta lentamente ma inesorabilmente soffocando il Paese. Insomma, la vera precarietà, presente e soprattutto futura, deriva dal declino, non dalla legge Biagi. O meglio, sta nel combinato disposto tra la fine del modello economico europeo – e in modo particolare della sua versione italica – e il deficit di consapevolezza che questo processo sia già in atto da tempo (piaccia o non piaccia si chiama declino) senza alcun coraggio di spiegarlo ai cittadini (specie ai giovani) e di conseguenza nessuna capacità di fronteggiarlo. Dunque, partire con le idee chiare sulla necessità del “superamento” della legge 30, lasciare fuori dal nuovo esecutivo il padre del “pacchetto Treu”, di cui la Biagi rappresenta la continuità, e viceversa affidarsi a misteriose capacità di “dare una scossa” al nostro sistema produttivo, come ha detto ieri Romano Prodi nel suo discorso programmatico – “il governo ritiene di avere politiche appropriate a questo fine” (meno male, ma quali sono?) – significa non aver capito nulla di come vada impostata la governabilità del Paese. A ben pensarci, si tratta dello stesso errore, speculare, commesso dal governo Berlusconi, che non ha messo in campo uno straccio di politica economica e industriale ma si è fatto vanto di aver varato la legge 30, cosa giusta ma avulsa dal più ampio contesto di un progetto-paese. Con il risultato che a furia di confondere la causa con la conseguenza, si è finito col criminalizzare gli strumenti di flessibilità individuati per rendere più dinamico il mercato del lavoro. E questo nonostante che dal sindacato vengano indicazioni più che ragionevoli, come quella avanzata dal neo-segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, che ha proposto di scambiare più flessibilità con più salario e, appunto, ammortizzatori. Invece, si guarda alla riforma Zapatero – non a caso lanciata subito dopo che la piazza francese ha imposto a De Villepin la resa sulla legge sul primo impiego – che pur essendo apprezzabile sul piano metodologico, per via dell’uso di incentivi e disincentivi che sono sempre da preferire all’imposizione pura e semplice, ha il torto di considerare normale (regolare) il contratto a tempo indeterminato e atipici (irregolari) tutti gli altri.
Al contrario, dovrebbe essere proprio la sinistra, almeno quella più moderna e riformista, a considerare la flessibilità un valore per l’individuo e una componente essenziale della modernizzazione del sistema economico, prima ancora che una modalità contrattuale. Cioè uno strumento fondamentale nella battaglia contro la vera precarietà, quella precarietà della nostra economia che la destra ha stupidamente negato e nascosto come polvere sotto il tappeto della propria inettitudine. Si dice: ma così evitiamo un nuovo sessantotto. Può darsi. Ma allora sono i giovani che farebbero bene a manifestare il loro disagio e le loro inquietudini spiegando a chi pretende di rappresentarli – dal sindacato conservatore (la Cgil) ai movimenti del “no a tutto” passando per la sinistra e la destra di governo “ignoranti” – che la questione non sta nel difendere lo status quo, bensì nel pretendere scelte politiche che vadano nella direzione di definire un nuovo modello di sviluppo e di trasformare lo stato sociale da sistema dei diritti a welfare delle opportunità. Nonché nell’incalzare un capitalismo vecchio e pigro a rinnovarsi, adeguandosi agli scenari globali, anziché continuare ad illudersi che la salvezza stia semplicemente in un costo del lavoro più basso, che al massimo può fornire alle imprese vittime della nuova competizione mondiale solo una breve (e inutile) boccata di ossigeno.
Pubblicato sul Foglio del 19 maggio 2006
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.