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Riforme del lavoro

Dai cococo ai ai

di Marco Marazza - 06 gennaio 2005

In molti si chiedono, ancora oggi, quale sia stata la sorte delle vecchie collaborazioni coordinate e continuative: contratti di lavoro autonomo di fatto privi di ogni regolamentazione e massicciamente utilizzati dal mercato come alternativa al più rigido ed oneroso lavoro subordinato. Nell'intenzione del legislatore le cosiddette co.co.co dovevano essere sostituite con il contratto di lavoro a progetto al duplice fine, da un lato, di consentire un uso dello strumento contrattuale non più sovrapponibile con l'area del lavoro subordinato e, dall'altro, di dotare anche questo contratto di una tutela legale comunque più solida ed efficace. Le co.co.co non trasformabili in lavoro a progetto dovevano essere assorbite dai nuovi contratti di lavoro subordinato (somministrazione, lavoro a chiamata, lavoro a tempo parziale, ecc..).

L'operazione, pur condivisibile nelle finalità generali, è da subito apparsa molto rischiosa a causa della difficoltà subito riscontrata nell'interpretazione dei concetti di progetto o di programma di lavoro. E' assai difficile, in altri termini, capire quando si possa legittimamente ricorrere allo strumento del contratto di lavoro a progetto e quando no. Così, a fronte di chi ritiene che il nuovo lavoro a progetto possa continuare ad essere utilizzato - pur senza i noti eccessi del passato - come le vecchie co.co.co, altri, invece, sostengono un'interpretazione restrittiva del requisito del progetto che ne impedisce l'utilizzo per soddisfare esigenze stabili e continuative del committente. Il lavoro a progetto, ad esempio, potrebbe essere utilizzato per l'aggiornamento una tantum della rete informatica o per la realizzazione di interventi straordinari sul software ma non anche per scopi di ordinaria manutenzione.

La questione è in attesa di essere definita dalla giurisprudenza e nessuno, oggi, è in grado di indicare con certezza l'orientamento destinato a prevalere. Nel frattempo occorre però considerare con attenzione ciò che è successo in questi primi dodici mesi che sono trascorsi dalla entrata in vigore della riforma.

Il mercato, come era lecito prevedere, ha recepito l'indirizzo interpretativo più elastico ed ha trasformato le co.co.co in contratti di lavoro a progetto. I lavoratori a progetto sono stati stabilmente inseriti nel ciclo produttivo pur mantenendo le necessarie peculiarità per quanto concerne, ad esempio, l'autonoma gestione dei tempi di lavoro. A loro sono state affidate attività nei contenuti identiche a quelle dei lavoratori subordinati, seppur in virtù di contratti che escludono l'assoggettamento al potere direttivo, un vincolo di presenza od orario, un obbligo di giustificazione delle assenze. Qualora dovesse prevalere l'indirizzo più restrittivo tutti questi lavoratori potrebbero ottenere la trasformazione del contratto in un rapporto di lavoro subordinato e l'applicazione delle relative tutele. Anche l'Inps potrebbe agire per ottenere le differenze contributive. Molte aziende non riuscirebbero a fronteggiare gli esiti negativi di un eventuale contenzioso. Sicuramente in tutte emergerebbe un problema di esubero del personale. Il fenomeno, in altri termini, assumerebbe dimensioni sociali non trascurabili.

Cosa fare? Onde evitare il peggio occorre anzitutto chiedersi quali siano le motivazioni che hanno indotto il mercato a correre, più o meno consapevolmente, questo rischio. Tutti sanno che si tratta motivazioni economiche ma trascurano quali siano i meccanismi che le alimentano. Pochi notano, ad esempio, che la questione dei costi previdenziali - certamente inferiori per il lavoro a progetto - non è necessariamente prevalente. Il lavoro a progetto, infatti, è nel più dei casi ritenuto più vantaggioso del lavoro subordinato perché il corrispettivo è riferito esclusivamente alla prestazione concretamente resa e perché la sua struttura consente di massimizzare l'efficienza della prestazione. Il lavoratore a progetto è pagato in base al risultato che produce, quantificato in termini di tempo effettivo di lavoro o di produzione materiale nell'unità di tempo. E ciò è perfettamente coerente con la natura autonoma del tipo di collaborazione di cui parliamo.

Non tutti, inoltre, valutano che a queste utilità fanno riscontro importanti vantaggi per lo stesso lavoratore. In primo luogo il lavoratore a progetto percepisce mediamente un compenso del 30% superiore a quello di un lavoratore subordinato. Già questo, a mio avviso, dovrebbe far seriamente riflettere sul desiderio - più volte sbandierato dalle parti sociali - di molti giovani collaboratori, spesso studenti universitari, di transitare verso forme di lavoro subordinato ancora meno vantaggiose dal punto di vista economico, come l'apprendistato ed il contratto di inserimento, oppure altrettanto precarie, come il lavoro in somministrazione od il contratto a termine. A ciò si aggiunga che il lavoratore a progetto deve godere di ampia autonomia nella gestione dei tempi di lavoro. Individuate fasce orarie di esecuzione della prestazione, il collaboratore è infatti libero di eseguire la prestazione, di interromperla o di sospenderla a seconda delle sue esigenze personali e professionali.

Perché, allora, non si supera l'attuale situazione di incertezza avallando per legge la soluzione interpretativa più estensiva ed elastica? Il contratto di lavoro a progetto certamente non perderebbe la sua qualificazione essenziale di contratto di lavoro autonomo. In quanto tale, infatti, quel contratto rimarrebbe caratterizzato dal fatto che il collaboratore assume l'impegno ad effettuare, con autonoma gestione dei tempi di lavoro, una prestazione i cui contenuti sono puntualmente individuati nel progetto o programma di lavoro (e non - come avviene nel lavoro subordinato - rimessi alla successiva individuazione unilaterale del committente mediante esercizio del potere direttivo). Certamente non si oltrepasserebbe la soglia del lavoro subordinato e, dunque, non verrebbe contraddetta la prima finalità della riforma.

A ciò, del resto, potrebbe affiancarsi una maggiorazione delle tutele sia previdenziali che sostanziali dei lavoratori a progetto. Nessuno, in un contesto di maggior certezza, potrebbe lamentarsi di un innalzamento anche consistente delle aliquote contributive. D'altra parte, considerato che il contratto a progetto è un contratto a termine, non meraviglierebbe neanche l'introduzione del principio della giustificatezza del recesso del committente. Magari in termini analoghi a quelli oggi già previsti dalla contrattazione collettiva per i dirigenti. In caso di recesso immotivato troverebbe naturale applicazione una tutela di tipo risarcitorio. Al collaboratore spetterebbero secondo i comuni principi del diritto i compensi che avrebbe percepito fino alla naturale cessazione del contratto.

Qualsiasi soluzione, comunque, è migliore dell'attuale incertezza.

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