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Alcoa

Da non sovvenzionare

Il declino non è il nostro destino, ma solo a patto di cambiare profondamente.

di Davide Giacalone - 11 settembre 2012

Spegnere certi impianti produttivi non è cosa che si faccia girando un interruttore. All’Ilva di Taranto è stato ordinato dal giudice, quale misura cautelare per la salvaguardia della salute, ma ci vuole tempo. Ce ne vuole anche per lo stabilimento Alcoa di Portovesme, ma quel tempo è già cominciato. Non lo ha ordinato nessuno, lo ha deciso l’azienda, perché la produzione non è più conveniente. Con l’aggravante sociale che si tratta della stessa area coinvolta nell’insostenibilità dell’estrazione di carbone. Sono situazioni difficili, con conseguenze gravi. Pesano sulle famiglie degli operai, la cui vita dipende da quei redditi. Pesa sul destino produttivo non di un’area o di una regione, ma dell’Italia tutta. Per questo si deve avere la serietà della chiarezza: la solidarietà a quegli operai non può e non deve significare consentire la prosecuzione di attività in perdita, perché la differenza si trasforma in impoverimento collettivo. La solidarietà a Stefano Fassina, esponente del Partito democratico, che ieri è stato spintonato mentre tentava di rivolgersi agli operai, una solidarietà totale, non deve e non può significare che la politica continui a illudere la gente. Non vale personalmente per Fassina, vale per tutti: quel che non è produttivo chiude. Ogni dilazione non è altro che un prolungamento dell’agonia. Nel caso di quello stabilimento Alcoa la proprietà (statunitense) ha fatto sapere che la svizzera Klesch sarebbe interessata a subentrare. Se così stessero le cose, però, non sarebbe corretta la decisione d’iniziare a spegnere, perché poi ci vuole tempo anche per riaccendere. E’ un errore far entrare lo Stato in negoziati fra privati e chi acquista è ragionevole lo faccia per guadagnarci, ma è un errore anche consentire che una proprietà faccia dichiarazioni a vanvera. Chi sbaglia paga, e si paga anche per chiudere. Così capita nei paesi seri e così deve capitare anche in Italia. Posto ciò, è evidente che la responsabilità non ricade sulle spalle dei lavoratori, che non possono essere i soli a pagare le conseguenze della chiusura. A loro si deve offrire una seria prospettiva di riutilizzazione in altre attività, senza nulla concedere all’illusione che possa essere sempre la stessa. Il ruolo della mano pubblica non deve essere quello di distorcere il mercato, facendovi rientrare quel che ne viene espulso, ma deve concentrarsi nel mettere a punto regole e opportunità che non tengano quei cittadini fuori dal lavoro. E’ uno spreco collettivo averli disoccupati, oltre che una tragedia privata. E’ uno spreco oneroso tenerli senza far nulla e comunque pagarli. Nessuno creda che si possa metterci una pezza, magari per placare la protesta, perché ci attendono tempi in cui questi casi saranno numerosi, quindi non sbriciolabili uno a uno. Per rimediare non servono misure tampone, ma una vera e propria rivoluzione che morti maggiore dinamicità e permeabilità del mondo del lavoro (la recente riforma va in direzione opposta), oltre a una dose abbondante di liberalizzazioni. Finché ci ostineremo a difendere le rendite di posizione, che siano quelle ricche e influenti o quelle povere e vocianti, non solo non caveremo un ragno dal buco, ma moltiplicheremo casi come questi. Il tempo a disposizione non è poco, è già finito. Più ancora che la difficoltà del momento preoccupa la scarsa consapevolezza del mondo politico, della classe dirigente, dei mezzi di comunicazione. Il declino non è il nostro destino, ma solo a patto di cambiare profondamente.

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