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La metamorfosi del capitalismo italiano

C'è poco da stare allegri

E' la fine delle grandi imprese. La verità inconfessabile dietro la nuova fase di Mediobanca.

di Enrico Cisnetto - 28 giugno 2013

Cara, è cambiato il capitalismo italiano, e io non so cosa mettermi. A leggere i soloni del politicamente corretto, il fatto che Mediobanca sia intenzionata a uscire dai patti di sindacato di Telco, Rcs e Pirelli, e a cedere gradualmente quote di Generali, abbandonando così la scuola di Cuccia e Maranghi, sarebbe una notizia positiva. “Finalmente si sono aperte le finestre del salotto buono e la polvere antica sta volando via”, si dice. E poi: “siamo di fronte ad una vera e propria metamorfosi, perché continuare a fare l’ago della bilancia del potere economico italiano non rende più”. Persino il Wall Street Journal ha espresso con un “mamma mia!” il suo stupore per questa “rivoluzione” voluta da Nagel, mentre il Financial Times con più prudenza si domanda “farewell to the salotto buono?”, ma pur sempre con l’ansia di poter rispondere affermativamente.

Scusate, ma di cosa stiamo parlando? I salotti buoni e il potere economico-finanziario italico non esistono più da anni, e Mediobanca è già scomparsa dal mercato (salvo alcune attività straordinarie, tipo l’ottima “CheBanca”, che sono tali perché fin dall’inizio non avevano nulla a che fare con la storia e il profilo dell’istituto). E tutto questo non è accaduto perché erano desueti, o addirittura anti-storici, i patti di sindacato o di blocco – cosa tutta da dimostrare – e neppure per l’eccessivo uso, questo sì esecrabile, di scatole cinesi e costruzioni societarie piramidali, o per la quotazione in Borsa di società che non ne avrebbero i requisiti (banche popolari, aziende monopoliste concessionarie di servizi a prezzo amministrato). No, il vecchio capitalismo made in Italy è morto (e sepolto) perché sono scomparse o emigrate quasi tutte le grandi imprese e sono stati distrutti i gruppi conglomerati. Spazzate via sia dal vento della globalizzazione, sia dall’uscita di scena dei mitici protagonisti del Novecento. Certo, dentro Mediobanca era rimasta qualche partecipazione – ampiamente svalutata, peraltro – ma è già dalla morte di Cuccia (2000) e poi definitivamente con quella di Maranghi (2007) che “via Filodrammatici”, poi diventata “piazzetta Cuccia”, aveva perso la funzione di stanza di compensazione di interessi che erano scomparsi o molto ridimensionati.

Ma, soprattutto, non si vede per cosa valga la pena di rallegrarsi. Perché dalle scelte di Nagel – obbligate – non emerge né un qualche nuovo profilo di Mediobanca né, tantomeno, un nuovo modello di capitalismo per l’Italia. Si è detto che d’ora in avanti Mediobanca cercherà spazio all’estero – alleluia – e rivedrà il business model dell’investment banking. Bene. Peccato che le sue competenze siano sempre state – e quelle che rimangono, tante o poche che siano, a quel dna fanno riferimento – nel credito a medio termine, e che proprio di questa specializzazione il sistema bancario italiano sia carente e che di quel tipo di finanziamento le imprese abbiano un disperato bisogno. Anzi, qualcuno è tornato a ragionare sulla normativa bancario, ipotizzando che sia necessario ripristinare la vecchia distinzione tra il credito a breve e quello a medio-lungo termine. Dunque, sarebbe stata una buona notizia se i baldi banchieri di piazzetta Cuccia ci avessero informato di questa intenzione. Ma così non è stato, e la buona novella non c’è.

Di ben diversa natura, invece, sono le trasformazioni in corso di Generali e Pirelli. Perché in questi due casi si legge un disegno per le società e, forse, una qualche possibilità di una positiva contaminazione sistemica. A Trieste, Greco ha innescato un cambiamento davvero straordinario che – partendo dal management e dalla governance, passando per la “pulizia” del bilancio e finendo con il profilo industriale della compagnia – rimetterà all’onor del mondo l’unica realtà davvero strategica del nostro piccolo mondo finanziario. Greco ha dimostrato in un anno di lavoro di far cambiare passo ad una società che sommava ad una storica polverosità e un ostentato provincialismo i problemi acuti nati al suo interno prima con la cacciata di Geronzi e poi di chi aveva ordito la trama contro il presidente per coprire colpe sue, e cioè il vecchio amministratore delegato Perissinotto. In particolare, a colpire favorevolmente è il fatto che Greco abbia indirizzato Generali verso le best practices internazionali e non a cercare di rispolverare i fasti di un passato che non tornerà mai più. Dal canto suo, Tronchetti, seppure costretto dal braccio di ferro con i Malacalza, non soltanto ha scelto di semplificare un quadro di controllo di Pirelli obiettivamente pletorico, ma ha pure deciso di programmare in tempi brevi la trasformazione della società in una vera public company.

Può darsi che queste due rondini non facciano la primavera del capitalismo italiano – indispensabile, peraltro, per uscire davvero dall’angolo della recessione perpetua – ma è sicuro che la “nuova” Mediobanca lo lasci nel perenne letargo invernale in cui è caduto.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.