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Le lamentele del Cav.

Criticare la Corte si può

La non trasparenza, anche dei conflitti, è il più insidioso male delle democrazie

di Davide Giacalone - 26 gennaio 2010

Il capo del governo ritiene indecente una sentenza della Corte, circa la costituzionalità della legge che regola le campagne elettorali, stabilendo la “par condicio” dei finanziamenti e degli spot pubblicitari. E’ convinto che si tratti di un attacco alla libertà, laddove, invece, la Corte aveva ritenuto di applicare la Costituzione, proprio nel delicato e fondamentale punto che tutela la libertà d’espressione del pensiero.

Il presidente è furioso, e non lo nasconde: “E’ una sentenza che indebolisce la nostra stessa democrazia (…). Difficile pensare a qualcosa di più devastante per l’interesse dei cittadini”. Non solo si lamenta, ma fa di più: incita la maggioranza parlamentare a porre rimedio, approvando al più presto una legge che ripristini quel che i giudici costituzionali hanno demolito.

Posto che il fatto riassunto è vero, sapete perché non avete letto le solite scemenze, destinate a sollevare lo scandalo del potere governativo che si scaglia contro i giudici costituzionali? Perché vi è stata risparmiata la ribollita gnagnera dell’attentato alle istituzioni? Perché la Corte è quella Suprema, e non quella Costituzionale, e il capo del governo è Barack Obama, e non Silvio Berlusconi. Ci troviamo negli Stati Uniti, e non in Italia. Qui da noi c’è una specie di obbligo morale ad accendere ceri per onorare le sentenze costituzionali, qualsiasi cosa dicano. Se ti permetti di criticare t’arrivano una valanga d’insulti, manco cercassi di dar fuoco alla Costituzione.

Lì, invece, il Presidente se la prende e rilascia dichiarazioni di fuoco, chiedendo vendetta, e, non contento, due giorni dopo si rivolge alla nazione, via radio, per ribadire che a quell’errore (secondo lui) si deve porre rimedio. I giudici non replicano, tanto sono inamovibili e il loro potere si esercita con le sentenze, senza cercare il consenso della piazza. Ora, ditemi voi, a naso, da quale parte dell’Atlantico, al netto degli spropositi, le istituzioni appaiono più solide e rispettate?

Non fermiamoci qui, perché la faccenda è ulteriormente interessante. I giudici della Corte Suprema sono di nomina politica, come in Italia quelli della Corte Costituzionale. Solo che lì è considerato ovvio, mentre qui sembra quasi un’offesa ricordarlo. Essendo scelti sulla base delle loro idee politiche, oltre che per la preparazione specifica, naturalmente, è ovvio che rappresentano gli equilibri del passato, quindi è altrettanto ovvio che possano esserci degli attriti con la maggioranza governante in quel determinato momento. La quale maggioranza, del resto, per il tramite del Presidente, nomina i giudici futuri, e così via. E questo si chiama “equilibrio dei poteri”. Che non comporta affatto, come sostiene qualche nostrana boccuccia di gallina, che ci si faccia ciuciù ciuciù tutte le volte, ma che, appunto, si rispetti il ruolo altrui, pur non condividendo affatto il merito delle decisioni prese. Rispetto vuol dire che la legge giudicata incostituzionale decade, ma il potere legislativo può benissimo rimetterla in piedi, meglio difendendola dalla precedente sentenza.

Poi c’è la questione del finanziamento della politica, che da noi si evita sempre di affrontare. Celebriamo matrimoni e proclamiamo la bontà della riproduzione, ma omettiamo di parlare e quasi condanniamo la copula, con il risultato che la scena è colma di copulatori non familiarizzati e non riproducenti. La legge statunitense, risalente al 1907 e, da ultimo, aggiornata nel 2002, prevedeva l’assoluta liceità dei finanziamenti privati, ma ponendo dei limiti e proibendo di finanziare il singolo candidato (un’ipocrisia, difatti nascono i “comitati per”). I limiti non riguardavano non solo le somme, ma anche i datori, ed erano contraddittori, perché, ad esempio, proibivano ai sindacati di finanziare la politica. La Corte Suprema ha tagliato corto: la libertà non può avere limiti, e chiunque, purché lo dichiari, può finanziare chi gli pare e per quanto gli pare.

Obama si oppone, ma non certo perché non abbia avuto finanziamenti dalle lobbies, bensì perché, in questo momento, ha deciso di vestire gli abiti del populista: si scaglia contro le banche e piange il fatto che il cittadino medio non potrà mai dare tanti soldi, al proprio candidato, quanti ne danno i grandi gruppi. Asciughi pure le lacrime, era così già prima. Ma, insomma, comunque lo si voglia vedere, il tema è, negli Usa, pubblico e dibattuto. Da noi, invece, è occulto e taciuto.

I partiti prendono rimborsi elettorali, in Italia, avendo così aggirato il referendum che abrogava il finanziamento pubblico. Ma il meccanismo è così scassato che sono sorti come funghi i partiti personali, proprietà di una persona, qualche volta di una famiglia, comunque di un gruppo, i quali non solo si arricchiscono in modo sfacciatamente pubblico (comprando palazzi, ad esempio, intestandoli a se stessi, ma pagandoli con i soldi dei propri partiti, cui li affittano), ma fanno marameo al dettato costituzionale, che vorrebbe i partiti democratici al loro interno e regolati in modo che siano funzionali alla democrazia. La non trasparenza, anche dei conflitti, è il più insidioso male delle democrazie. Quelli che, da noi, incitano alla concordia perpetua ne sono i più efficaci diffusori.

Pubblicato da Libero

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