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Tra prima, seconda e terza Repubblica

Crisi della democrazia o crisi italiana?

L'intervento di Elio Di Caprio al Convegno Il Borghese - L’Opinione sulla crisi italiana -

14 dicembre 2010

In tempi di declino non solo economico e di decadenza dei tradizionali valori che tengono unita una comunità il parlare di riforma della Costituzione, pur considerata da tempo inefficace e superata, sembra un compito assieme formale e ripetitivo, fuorviante rispetto alla portata di problemi più vasti che attengono ad altri aspetti storici, politici e di costume che hanno essi stessi influito sulla Costituzione italiana e la sua applicazione.

Il compito appare ancor più difficile quando la nuova retorica del “patriottismo costituzionale” si rivela un espediente di conservazione che impedisce alla nostra democrazia di adeguarsi ai tempi cambiati ad agli standards degli altri Paesi europei. Eppure il problema di una revisione costituzionale esiste e persiste da tanti anni, è un fiume carsico che appare a tratti in coincidenza con i più importanti tornanti della nostra storia recente per poi inabissarsi e scomparire nella vana illusione che la nostra democrazia trovi nella sua prassi l’antidoto migliore per creare alternanza tra le forze politiche, rispetto delle norme e delle regole, ricambio ordinato della classe dirigente, capacità di decisione senza che venga minato il necessario equilibrio dei poteri dello Stato Già negli anni ’80 Giorgio Almirante amava definire l’attuale Costituzione che ci regge dal 1948 una Costituzione bastarda, perché nata dal connubio necessitato di comunisti e cattolici nei primi anni del dopoguerra. Qualcun altro ha chiamato bastardo più l’attuale bipolarismo che la Costituzione.

In effetti l’attuale bipolarismo definito “per branchi di lupi” da un recente scritto di Marcello Veneziani, più che un cortocircuito del sistema è il risultato di un lungo circuito che trova le sue ragioni proprio nei difetti originari di una Costituzione che non ha saputo creare un collegamento efficace tra il momento della rappresentanza e quello della decisione.

Forse l’ex capo missino sbagliava o esagerava in una definizione così tranchant, che comunque sottolinea l’ambiguità di origine del patto costituzionale unita ad una certa rigidità che ne caratterizza l’impianto ideologico. Non poteva prevedere certo l’Almirante di allora quello che ci avrebbe riservato il futuro, né la riforma peggiorativa del Titolo V voluto dalla sinistra per ragioni concorrenziali con la Lega, nè i numerosi e infruttuosi tentativi di riformare la seconda parte della Costituzione arenatisi tra mille velleità e contraddizioni e tanto meno l’attuale bipolarismo che di costituzionale ha ben poco.

Allora non era alle viste- tema di oggi- la retorica del patriottismo costituzionale da opporre alla personalizzazione della politica di stampo berlusconiano. Ma è ben comprensibile che dati i tempi – parliamo dell’epoca pre Tangentopoli o della cosiddetta Prima Repubblica - il “polo escluso” capeggiato da Almirante non avrebbe potuto non rivendicare un’opposizione di principio ad una Costituzione che aveva la sua cifra principale- come si dice oggi- nell’antifascismo.

Possiamo mai noi stessi ora considerare la Costituzione, a parte ogni considerazione di merito, come l’unico “ubi consistam” a cui aggrapparci nell’assenza di ideali e di passioni ? Certamente no, ma non per le ragioni indicate da Almirante quasi 30 anni fa, bensì per il groviglio e le interferenze di poteri che l’hanno resa ancora più debole, inefficiente e inadeguata ai tempi.

Basta pensare alle degenerazioni dell’ultimo periodo che, nell’Italia bipolare, possono essere simboleggiate dai piani partitici preventivi, tuttora in corso, per ipotecare alla scadenza l’elezione del nuovo Capo dello Stato nel 2013, già considerata una merce di scambio per altri assetti politici, oppure dallo stesso comportamento dell’attuale Presidente della Camera che decide di fondare un proprio partito conservando però le prerogative super partes proprie della sua carica.

Ancora più stupefacente è che l’argomento principale che viene sbandierato dai seguaci del sistema maggioritario contro il sistema proporzionale sia il pericolo del voto di scambio che altererebbe il consenso popolare quando poi sono proprio gli eletti in Parlamento con sistema maggioritario a dare per primi il peggiore esempio di trasformismo mercanteggiando i loro voti a sostegno o contro una maggioranza di governo. E’ accaduto nella passata legislatura e sta avvenendo nell’attuale.

Ma nessuno fa più caso alle incongruenze o ai disinvolti comportamenti dei circoli ristretti della politica quando tutto ciò che avviene nelle stanze del Palazzo sembra riguardare un mondo a parte con i suoi codici e i suoi rituali, mai svelati e distillati se non per farne oggetto di campagne propagandistiche o diffamatorie.

Eppure questo bipolarismo contenente in sé i germi della propria dissoluzione, perché ha costretto a schierarsi su sponde opposte e semplificate partiti, culture e interessi inconciliabili, non è figlio della Costituzione bastarda di cui parlava Almirante. E’ qualcosa di diverso, anche se ancora ci chiediamo se e in che modo sia riconducibile alla Costituzione.

L’attuale legge elettorale che ha accompagnato il bipolarismo negli ultimi anni è stata sicuramente un vero e proprio strappo “border line” rispetto alla Carta e al suo spirito informatore per i risultati peggiorativi che ne sono conseguiti quale ultimo tassello di una deriva falsamente plebiscitaria del nostro sistema politico negli ultimi 15 anni. Ma non per questo è una legge che può essere definita in sè anticostituzionale visto che il dettato della Carta non fa alcun riferimento ad una legge elettorale alla quale obbligatoriamente attenersi. I veri strappi alla Costituzione Gli strappi precedenti sono stati numerosi e di diversa natura, hanno molti padri a destra come a sinistra, ma qualche responsabilità va pure addebitata a chi secondo proprio il dettato della Costituzione avrebbe dovuto esserne il garante. Ci riferiamo ai Capi di Stato di allora, da Scalfaro a Ciampi che non sono stati all’altezza dei loro compiti in alcuni passaggi cruciali che ci hanno portato alla situazione attuale. Tralasciando l’aberrazione di aver consentito alla Lega la creazione formale e provocatoria di un Parlamento Padano come sottospecie di quello italiano, nessun richiamo è stato mai fatto dal Capo dello Stato quando l’abnorme conflitto di interessi è esploso in tutta la sua rilevanza. Il Presidente Ciampi solo alla fine del suo mandato ha preso le distanze e denunciato l’irrisolto conflitto di interessi come un vero e proprio macigno che incombe sulla vita democratica del nostro Paese. Soprattutto non abbiamo ascoltato nessun avvertimento o messaggio alle Camere quando è stata approvata una legge elettorale pessima come quella vigente che si è aggiunta – altro vulnus incredibilmente sottovalutato alla Costituzione- all’indicazione sulla scheda elettorale del nome del capocoalizione come possibile Presidente ( del Consiglio) eletto dal popolo. Il risultato è stato ed è grottesco: è più importante un Presidente del Consiglio eletto impropriamente o surrettiziamente dal popolo o un Capo dello Stato eletto dal parlamento? Come si può assistere passivamente a questo sbilanciamento di poteri senza che venga riformata a monte la stessa Costituzione? Certo si può sempre dire che i poteri del Presidente della Repubblica, proprio a norma della Costituzione, sono più formali che sostanziali, più di “moral suasion” che di diretto intervento nelle cose della politica e sarebbe stato difficile accettare un suo ammonimento o intervento su una legge elettorale di competenza esclusiva del parlamento. Ma neanche questo è totalmente esatto – data appunto l’incertezza di alcuni poteri costituzionali ampiamente dibattuti in dottrina - visto che il Presidente Ciampi è intervenuto, in ossequio al principio di non contraddizione con altre norme, a richiedere con successo che nell’ultima legge elettorale il premio di maggioranza al Senato fosse stabilito su base regionale e non nazionale con le conseguenze distorsive che abbiamo registrato nell’attribuzione dei seggi che tra Camera e Senato non assicurano certo la stabilità. E’ vero che siamo formalmente in una repubblica parlamentare dove i poteri del Capo dello Stato e quelli del Presidente del Consiglio sono volutamente ridotti rispetto al Parlamento e lo stesso Premier Berlusconi si è strumentalmente lamentato degli scarsi poteri che gli conferisce la sua carica, a lui e a qualsiasi Presidente del Consiglio che abbia la ventura di governare l’Italia. Resta il pletorico Parlamento sovrano che, sia pure irreggimentato nella prassi bipolare, trova difficoltà a legiferare a tal punto da dover ricorrere ai decreti legge, non più eccezionali e provvisori, ma diventati ordinari strumenti di governo. Si vuole una prova migliore dell’inefficacia di un sistema di rappresentanza e di decisione politica non più adatto ai tempi? Correremmo però il rischio di cadere noi stessi in un ragionamento di carattere formale ed astratto se ci limitassimo a considerare il dettato costituzionale in sé, invocando questa o quella modifica, senza rapportare la Carta alle condizioni storiche, alle forze in campo che l’hanno determinata. Così come vanno tenute in conto le successive condizioni politiche, prima e dopo Tangentopoli, che hanno reso vano il tentativo di una riforma globale portato avanti più per interessi di parte che in base ad un disegno condiviso. Siamo infine arrivati ai giorni nostri ad un ulteriore stallo in cui si è creata una paradossale contrapposizione tra i presunti riformatori che non riescono a riformare e i conservatori di un formale patriottismo costituzionale che di fatto impedisce qualunque modifica, pur razionale e necessaria, a partire dall’esigenza di abolire il bicameralismo perfetto, inutile e costoso . Risulta chiaro ad una riflessione storica serena che la Costituzione del ’48 – che, non dimentichiamolo, doveva uniformarsi in ogni caso ai sistemi politici vigenti nei Paesi vincitori della seconda guerra mondiale - ha privilegiato l’aspetto della rappresentanza di partiti e interessi a quella della decisione per i noti timori che si instaurasse uno Stato autoritario se si fossero dati troppi poteri all’Esecutivo e al Presidente del Consiglio, non più considerato Capo del Governo come in epoca fascista. Forse sarebbe meglio dire che la Costituzione è stata ed è necessariamente un ibrido in cui è stato facile far decadere nei fatti alcuni articoli mai applicati o è stato possibile disapplicarla per una certa genericità ed ambiguità di alcuni suoi articoli derivati dalle esigenze compromissorie delle forze che l’hanno tenuta a battesimo. A parte le sempre celate assonanze di alcuni articoli della Costituzione con quanto previsto, in materia sociale, dagli stessi 18 Punti di Verona del Manifesto della RSI- ad esempio l’articolo primo sulla Repubblica fondata sul lavoro o quello sulla utilità sociale della proprietà privata per non parlare dei riflessi della tradizione corporativa- cattolica che si rinvengono negli articoli 39, 40,43 e 46 della Costituzione, peraltro mai applicati - deve essere ben chiaro che la Costituzione ancora vigente, risultato di un onorevole compromesso tra comunisti, socialisti, cattolici e liberali, sin dall’inizio non ha impedito lo strapotere della partitocrazia che ha avvelenato la vita politica italiana fin dagli anni ’60 . Strapotere che, contro le previsioni, è stato tutt’altro che attenuato, anzi è stato esasperato dall’attuale bipolarismo che tende invano a trasformarsi in un bipartitismo quasi obbligato. Siamo così arrivati ai parlamentari nominati dall’alto e alla constatazione che la manomorta dei partiti ha invaso ambiti sempre maggiori fino a coinvolgere il Potere – non più solo Ordine- dei magistrati. Il parlamento dei nominati che ha dato spazio a tanti ex magistrati, alcuni divenuti capi partito, assisi nelle Assemblee accanto ai legali personali del Presidente del Consiglio è la plastica dimostrazione di un degrado che tocca tutto il nostro sistema di rappresentanza. Si è in tal modo alterato in maniera significativa quell’equilibrio dei poteri che è un cardine fondamentale di ogni democrazia che non può esaurirsi nel momento elettivo dei nostri rappresentanti in Parlamento. Il sopravvento della partitocrazia sulla Costituzione formale Sorge una domanda logica a questo punto e ritorniamo al punto di partenza : la partitocrazia che non si è riusciti a debellare per 60 anni e che anzi si può dire si sia estesa grazie alla personalizzazione leaderistica della lotta politica è figlia della Costituzione o si è affermata nonostante la Costituzione? Nei fatti i partiti che secondo la Costituzione dovrebbero concorrere alla determinazione della politica nazionale hanno finora sempre fatto la parte del leone, espropriando governo e parlamento. Qualcuno potrebbe anche dire che si tratta di un falso problema perché i partiti in ogni tempo e in ogni Paese tendono sempre a prevaricare nonostante regole scritte, legislative o costituzionali che siano. Del resto l’Italia è andata avanti sia pure in maniera disordinata – siamo ancora tra le prime 10 potenze economiche mondiali, nonostante l’enorme debito pubblico- con questa Costituzione o nonostante questa Costituzione. Ma ciò non basta a spegnere ogni polemica tanto da accontentarci di governi deboli, di un parlamento farraginoso e inefficiente, di riforme parziali o ritardate da crescenti diritti di veto. Se per tanti anni siamo andati avanti con una Costituzione non all’altezza dei tempi ci si domanda, purtroppo legittimamente, se non sia meglio non smuovere le acque con il pericolo che le cose peggiorino per l’inadeguatezza dei nostri legislatori ben lontani dallo spirito costituente del ’48. Non è così : è vero che la Costituzione è una cornice formale, ma rappresenta pur sempre un patto di convivenza fondamentale, è l’ordinamento principale da cui dovrebbero discendere norme sicure ed efficaci che si adattano ai tempi che cambiano. Non c’è bisogno di resuscitare un pretestuoso patriottismo costituzionale per impedirne la riforma. Certamente concorrono alla crisi attuale altri aspetti che ineriscono alla nostra storia nazionale fino ai tempi più recenti, a costumi e prassi politiche consolidate, a certe costanti che hanno caratterizzato l’agire politico in Italia sin dai tempi dell’unificazione, passando poi per il periodo fascista e quello post fascista della Prima e Seconda Repubblica. Sono tutte esperienze politiche che hanno lasciato un’impronta profonda nella mentalità e nell’ identità collettiva fino a condizionare gli stessi comportamenti delle classi dirigenti che siamo riusciti ad esprimere nei 150 anni della nostra storia unitaria. In tanti anni sono cambiate le strutture economiche profonde, i valori dominanti sono anch’essi mutati, si sono avvicendate diverse forze in campo, eppure bisogna avere il coraggio di dire che c’è sempre stato da noi un problema di democrazia incompiuta, di rappresentanza insufficiente di ceti e categorie a cui hanno fatto spesso riscontro momenti decisionali più autocratici che democratici. Permane il condizionamento che in regimi diversi hanno esercitato sulla vita politica i gruppi di pressione che si sono organizzati al di fuori e dentro il Parlamento fin dall’Unità d’Italia. Si è passati ad esempio dalle guerre tra notabili proprie della società agricola di fine ‘800, a quella tra i ras di provincia del fascismo, a quella tra i ras democristiani di un quasi partito unico come la DC del dopoguerra, per finire alle odierne fazioni di periferia che ancora insidiano e condizionano con successo il potere centrale. In aggiunta c’è stato, e ancora permane un certo tasso di ambivalenza nella nostra vita politica forse necessitata dalle tante contraddizioni e difficoltà del nostro processo unitario. Basta pensare ai tanti compromessi storici che hanno caratterizzato la vita politica italiana, tra cui quello tra fascismo e monarchia o l’altro degli anni’80 tra comunisti e cattolici, alla confusione dei ruoli, alla sovrapposizione o allo sdoppiamento delle competenze se non al trasformismo che si sono trascinati dai tempi dello Statuto albertino fino all’attuale Costituzione. E poi il bipolarismo all’italiana non è stato anch’esso marchiato dall’ambiguità fin dall’inizio, a destra come a sinistra? Se si rilegge la cronaca-storia di Ivanoe Bonomi, egli stesso Presidente del Consiglio nel 1920, sulla vita parlamentare italiana dopo l’unità, vigente lo Statuto albertino, che vide l’alternarsi al potere di destra e sinistra con ben venti governi prima dell’avvento del fascismo, si ritrovano ampie somiglianze con la successiva prassi del cinquantennio ad egemonia democristiana del dopoguerra. Anche allora imperavano trasformismi, clientelismi, giochi delle parti, compromessi con i poteri forti, pratiche di ostruzionismo, ribaltoni improvvisi originati all’interno dei partiti della stessa maggioranza, leggi elettorali addomesticate, scandali e scandalismi utilizzati strumentalmente per fini politici. Per certi versi è un’eredità che resiste anche in tempi di presunta Seconda Repubblica, nonostante il sistema maggioritario e nonostante il bipolarismo. Quella fase elitaria della lotta politica del primo novecento si interruppe bruscamente – non solo in Italia- con l’avvento della società di massa e la prima guerra mondiale. A parte ogni legittimo giudizio storico in merito, si può dire, almeno con riguardo all’Italia e parte dell’Europa e tralasciando il modello del tutto a sé della democrazia americana, che le due forze in grado di guidare e dare un governo o uno sbocco all’emergere della società di massa nel primo novecento, furono storicamente nel nostro Paese da una parte la triade sindacato-socialismo-comunismo e dall’altra nazionalismo e fascismo, due fronti non compatti al loro interno, ma entrambi scettici e critici per differenti ragioni sull’efficacia stessa della democrazia parlamentare . La democrazia parlamentare di tipo prefascista è stata poi trasposta quasi meccanicamente nella nuova cornice costituzionale del ’48 pretendendo che le regole fondamentali di convivenza civile e di organizzazione dello Stato potessero essere le stesse nel passaggio da una società eminentemente agricola di 100 o 150 anni fa a quella prevalentemente industriale che andava già sviluppandosi nel periodo tra le due guerre. Ma ciò non è bastato a creare una vera e propria cesura tra i periodi storici. La Storia non procede a salti e, a parte la cornice costituzionale, bisogna pure considerare la legislazione corrente, di quanto questa negli anni si sia discostata o meno dalla Carta costituzionale. Sabino Cassese in un suo saggio recente si è soffermato sugli elementi di continuità tra Stato liberale, Stato fascista e Stato democratico, e noi potremmo aggiungere tra prima e Seconda Repubblica, a prescindere dalla Costituzione, per quello che attiene al sistema politico-amministrativo, alla sua prassi e alle sue leggi, allo stesso personale direttivo delle varie istituzioni. Con riguardo alla continuità con lo Stato fascista il giurista osserva, partendo dallo stesso CNEL che è rimasto come luogo di rappresentanza degli interessi pur in assenza dell’ordinamento corporativo, come sia stata mantenuta e rafforzata la pluralità dei tanti enti a partecipazione statale, dall’Agip, all’IRI, all’IMI che, nati in regime fascista, hanno caratterizzato l’industria di Stato italiana del dopoguerra per un quarantennio che va dal 1948 alla metà degli anni ’90. Cassese ci rammenta infine come, sia pure emendati, siano rimasti vigenti dall’epoca fascista i medesimi codici civile e di procedura civile, il codice penale, le leggi quadro sull’urbanistica e sui beni culturali e persino la legge sulla Pubblica Sicurezza del 1931. Dobbiamo ascrivere questa continuità ad una sorta di Costituzione materiale riempita a suo modo di vecchie e nuove norme oppure il dettato costituzionale non ha alcuna rilevanza, se non di principio, sullo svolgersi concreto della vita politica nazionale? La crisi di sistema al suo apice Ritorniamo all’attualità del bipolarismo, secondo o contro la Costituzione, ed alle macerie che questo bipolarismo all’italiana ha fin qui prodotto. Cosa fare della Costituzione a questo punto per raddrizzare la barca Italia nei prossimi anni quando sembra che modificare la legge elettorale sembra diventato un compito ben più importante e decisivo? Se lasciamo da parte un approccio meramente formalistico e facciamo conto di quanto è successo in Italia negli ultimi anni con la particolare accelerazione impressa dai tempi in cui viviamo, ci accorgiamo come la crisi attuale che possiamo chiamare, senza esitazione, di sistema fa impallidire le crisi precedenti. A meno che non si consideri l’attuale crisi come l’apice, il culmine, la fase terminale di un progressivo scollamento, in atto da tempo, per il prevalere da lunga data di una incontrollata partitocrazia nel sistema di distribuzione e di esercizio del potere.. Il dibattito sulle cause di questa graduale decadenza è ovviamente aperto, ma non si può non fare riferimento ai cambiamenti cultural-politici intervenuti in Italia negli ultimi 20 anni dopo la caduta del muro di Berlino, con Tangentopoli, con la diaspora leghista superiore alle previsioni e infine con l’emergere del “meno male che Silvio c’è”, l’uomo forte che poi tanto forte non è, eletto dal popolo. A spiegazione ci possono essere ragioni storiche e socio-culturali di tutto rilievo. Per la particolare storia italiana, simile ma non combaciante con quella di altri Stati europei, prima la caduta del fascismo ( con patriottismo e nazionalismo connessi) e il venir meno poi della prospettiva marxista ( con lotta di classe connessa) hanno interrotto bruscamente due narrazioni parallele, prima quella nazionale e poi quella sociale in cui gli italiani si erano in buona parte identificati . Il partito cattolico già egemone per quasi mezzo secolo dal canto suo non è stato in grado di coprire il vuoto che ne è derivato, perché privo dall’origine di una propria narrazione autonoma che non fosse quella universalistica della Chiesa, essa stessa alle prese con la secolarizzazione delle masse. Non è un caso che nel periodo della cosiddetta Prima Repubblica l’alternativa a fascismo (ormai morto) e a comunismo in agguato non sia stato un partito liberale di massa- che mai è esistito e forse mai esisterà per la peculiarità della storia italiana- ma un partito di derivazione strettamente cattolica e storicamente antirisorgimentale come la DC, logorata essa stesso dalla partitocrazia che pure aveva ampiamente incoraggiato e contribuito a mettere in piedi. E’ stata questa la principale caratteristica della storia italiana, prima culla del fascismo destinato a diventare una delle grandi categorie interpretative della storia del novecento, poi ospitante il più grande partito comunista dell’occidente per più di 40 anni in un’epoca in cui il partito cattolico saldamente al potere ha reso marginali o minoritarie le componenti liberale e socialista. La caduta delle ideologie tradizionali, il venir meno delle identità politiche della modernità- la libertà, la Nazione, il proletariato- ha creato un cambiamento epocale, ha riguardato tutti i Paesi occidentali, ha seminato smarrimento dappertutto, ma in Italia ha assunto un significato traumatico di strappo ancor più profondo che altrove per il venir meno di passioni e suggestioni realmente vissute sulla propria pelle e a lungo sedimentate nel corso di più generazioni. Da noi più che in altri Paesi il vuoto svelato dal disinganno delle ideologie del novecento troppo a lungo perseguite come chiave di lettura della realtà è stato riempito dall’inganno della propaganda che per altre vie impedisce o altera la percezione dei problemi reali. Questo lungo processo di disincanto ha portato come ultima conseguenza all’artificiosa costruzione dei due sgangherati fronti contrapposti di oggi a cui forzatamente aderire non in base a convincimenti profondi ma a riflessi condizionati dall’alluvione propagandistica di informazioni frammentate ed eterodirette sconfinanti spesso con la disinformazione vera e propria. La crisi massima di sistema- evidentemente ancora in corso- è stata raggiunta quando la mancanza delle principali entità collettive di riferimento prima in nome della Nazione e poi della classe sociale, ha fatto emergere dopo il ‘90 il berlusconismo- leghismo associato ad un anarchico sentimento individualista subito risorto sulle macerie della caduta delle ideologie. Ma sia la narrazione leghista che quella concorrente berlusconiana mostrano già il fiato corto essendo stati incapaci di andare oltre la protezione degli interessi locali o di ceto o addirittura di un singolo leader. Come dimostrano le vicende travagliate della Seconda Repubblica neppure la personalizzazione estrema della politica è riuscita a rimpiazzare nell’immaginario collettivo le vecchie narrazioni e le vecchie passioni. Persino il Sindacato, l’ultima forza residuale di consenso sociale organizzato, ha perso il suo potere contestativo contro un avversario diventato sfuggente, riducendosi così a barcamenarsi esso stesso tra rivendicazioni di vecchio stampo e protezione di fatto di interessi costituiti. Il senso dello Stato nazionale da rifondare Poteva essere diversamente quando le spinte centrifughe che hanno disseminato la storia italiana dal momento della (ri)unificazione non hanno più trovato una forza centripeta di mediazione e di accoglienza? Cosa è venuto meno? E’ venuto semplicemente meno, occorre dirlo con chiarezza, il senso dello Stato nazionale, cioè del bene comune impersonale e della fiducia dello stare insieme per esso, come valore precostituzionale o prepolitico. E’ più importante il senso dello Stato o il senso della Costituzione inappropriatamente racchiuso in un presunto patriottismo costituzionale senza passione?. Nelle circostanze più critiche si invoca non la Costituzione, ma lo Stato come entità superiore e ultimo rifugio, ogni qualvolta si è alla ricerca di un potere neutro di continuità, non partitico, che sia in grado di interpretare ed attuare il bene comune sopperendo ai bisogni fondamentali e di ultima istanza dei cittadini. Ma ormai si tratta di un concetto indefinito, se non deformato. Chi e cosa è lo Stato oggi? La burocrazia organizzata, la volontà di un singolo personaggio dominante, il Parlamento stesso seppure esautorato come ora, le forze di polizia, la Protezione civile, l’ordine giudiziario non in grado di dare giustizia nei tempi giusti? Il Ministro dell’Interno Maroni, leghista, ha più volte ascritto a suo merito di aver fatto prevalere lo Stato nelle regioni meridionali per sconfiggere la criminalità organizzata, ma non a caso ha parlato solo di Stato, non di Stato nazionale –è questo il paradosso- perché altrimenti avrebbe contraddetto il concetto di nazione padana così caro alla propaganda leghista. Scindere i due termini di Stato e Nazione non ha senso in un’epoca in cui la globalizzazione ha assegnato nuovi ruoli, sia pure nell’ambito di entità più vaste, agli Stati nazionali esistenti e non ad altri. Se tale scissione fosse accolta ne conseguirebbe che, per assurdo, il debito pubblico italiano andrebbe riguardato come debito dello Stato e non della Nazione italiana. La confusione concettuale e culturale è enorme se si parla ancora con leggerezza di Stato etico come realtà fuori tempo da cui rifuggire o di Stato padrone come sintesi altrettanto negativa di tutto ciò che lo Stato non dovrebbe. Si tralascia il fatto che lo Stato è semplicemente il fondamento irrinunciabile di quella legalità che a tratti viene riscoperta come valore di base di ogni società civile. In tale contesto è emblematico come lo Stato sia stato trattato in Costituzione dall’infelice riforma del titolo V della Costituzione che, in nome del mito della sussidiarietà ha declassato lo stesso concetto di Stato. L’art.114 del titolo V infatti stabilisce che la Repubblica è costituita da comuni, città metropolitane, province (quelle che si vogliono invano abolire) e, per ultimo, lo Stato. Nessuno ha protestato per questa dizione “innovatrice” inserita in Costituzione, né il Capo dello Stato di allora e neppure la Corte costituzionale. Ma non eravamo abituati ad identificare il concetto di Stato con quello di Repubblica da almeno un sessantennio? La riformulazione derivante dal Titolo V non è neppure un’innocua dichiarazione di principio, attiene direttamente all’organizzazione funzionale ed all’equilibrio dei poteri, tanto è vero che ha creato innumerevoli conflitti di competenza tra gli enti locali e lo Stato declassato ad ultimo ente tra i tanti. Cambiare la Costituzione si può e si deve. Dove e come cominciare. Partitocrazia, bipolarismo bastardo, Costituzione inadeguata e in prospettiva il federalismo, non solo fiscale, che s’innesterà esso stesso su un quadro sempre più fragile di scarsa coesione nazionale e sociale. Come uscire dal groviglio che si è creato tra le cosiddette Prima e Seconda Repubblica? Dando vita finalmente a una Terza Repubblica o meglio ad una vera Seconda Repubblica fondata su una nuova Assemblea Costituente che ridisegni il quadro complessivo dei poteri. Il compito sembra più gravoso che mai perché mette in gioco tutte le connessioni che hanno portato alla crisi attuale : ricambio insufficiente ed inadeguato della classe dirigente nel passaggio traumatico dalla Prima alla Seconda Repubblica, personalizzazione della politica che ben lungi dall’ essere una scorciatoia per superare le rigidità delle fazioni contrapposte in nome di un sano decisionismo si è rivelata essa stessa come uno stucchevole espediente di conservazione del potere o di sopravvivenza per vecchi spezzoni della classe dirigente. Infine la guerra della propaganda si è sostituita alla guerra delle ideologie per coprire l’incapacità di decidere e di mediare tra gli interessi particolari e settoriali che negli anni si sono sempre più rafforzati a scapito dell’interesse generale. Proprio l’aggravarsi degli elementi di crisi del sistema rende indilazionabile una seria riforma globale della Costituzione, al di là dei rammendi finora apportati. In una società completamente cambiata dal ’46 ad oggi che vede l’Italia in declino sostanziale da più di 10 anni, più o meno dai tempi dell’introduzione dell’euro, soffermarsi sulla Costituzione, quella che certa sinistra considera ancora “la più bella Costituzione del mondo”, sembrerebbe un compito secondario, di carattere formale, che non sposta i termini di una crisi che è anche sociale e culturale per la cui soluzione nessuno ha una ricetta credibile. Ma proprio in tempi di crisi – chi può scommettere che non si aggraverà ancora nei prossimi anni? - risulta ancora più stridente e in contrasto con la realtà l’immagine di una classe dirigente politica non credibile e neppure in grado di costruire al suo interno i termini di un ricambio normale come succede nelle altre democrazie. Se la personalizzazione della politica ha assunto in Italia un aspetto del tutto particolare e per alcuni versi inquietante, non lontanamente paragonabile alle lotte per la leadership di tutti gli altri Paesi europei, ciò è dovuto anche e soprattutto ad una Costituzione che, fin dall’inizio priva di pesi e contrappesi adeguati, ha lasciato campo libero alla partitocrazia e ora all’attuale deriva pseudo- plebiscitaria. I cambiamenti culturali intervenuti negli ultimi anni scontano tutti i nodi irrisolti della storia italiana che neppure l’escamotage del bipolarismo obbligato è riuscito a sciogliere creando un nuovo punto fermo da cui ripartire. E’ tanto vero ciò che la principale divisione che ci attraversa, nell’immaginario o nella realtà, non è un’alternativa bipolare tra destra e sinistra, neppure due fronti chiari tra cui scegliere, ma tra presunti berlusconiani e antiberlusconiani, tra presunta destra e presunta sinistra. E’ facile prendere oggi le distanze dal berlusconismo in fase discendente, ma in tanti hanno preso parte al gioco negli ultimi 15 anni, in tanti sono corsi, anche a sinistra, ad imitare un modello che sembrava per definizione moderno e vincente. Se parliamo della classe dirigente- in primis quella parlamentare, ma non solo - sono ben pochi coloro che in un modo o nell’altro si siano sottratti alla sirena berlusconiana, dagli ex missini in cerca dell’uomo forte, agli ex radicali, agli ex socialisti e repubblicani, persino agli ex democristiani ed ex comunisti. Paradigmatica è la parabola non ancora terminata di tanti ex radicali tutti d’un pezzo alla Capezzone o alla Stracquadanio, alla Quagliariello, o allo stesso Della Vedova catapultati anch’essi ne vuoto della faida tra berlusconiani e antiberlusconiani. C’è chi si è messo in prima fila per farsi cooptare o per creare rapporti di buon vicinato con il potere vincente, altri si sono fatti irretire con la speranza o l’intento segreto di condizionare il sistema politico che si stava delineando. Anche questa è storia italiana, sia pur recente. L’estrema debolezza di una sinistra così smarrita nel contrapporsi all’indistinta armata del berlusconismo e così fuori tempo da non essere neppure all’altezza di adeguarsi ai nuovi modelli di comunicazione moderna, non ha nulla a che fare con la Costituzione, è vero. Ma dobbiamo pur domandarci come è potuto accadere che con “la più bella Costituzione del mondo”- come ha detto recentemente il segretario del PD- siamo arrivati al punto che l’alternativa resta ancora quella tra la frammentazione o la stagnazione, tra l’anarchia ed un sistema immobile ed autoreferenziale. Costituiamo ancora un’eccezione rispetto alle altre democrazie in un’epoca che invece dovrebbe spingere ad una tendenziale convergenza ed omologazione dei sistemi di rappresentanza e di governo almeno nell’ambito di quella Unione Europea che via via sta riducendo le competenze degli Stati nazionali. La Costituzione, questa Costituzione, non ci ha certo aiutato a costruire una cornice globale di norme al passo coi tempi che evitassero lo screditamento crescente della classe politica che mai è riuscita a spogliarsi, nemmeno nel nome della Costituzione, dei condizionamenti partitici di origine. Cambiare le regole in un regime democratico è sempre un compito difficilissimo a meno che non si abbia il coraggio di dar vita ad una nuova Assemblea Costituente che abbia la funzione di rivedere i principali assetti di potere ed adeguarli alla realtà mutata. E’ un compito considerato ancora astratto e velleitario perché impegnerebbe la classe politica a rimettersi in gioco, a dimostrare esemplarmente di sapersi sottomettere a nuove regole che mettono in pericolo i vecchi privilegi. Ma è una scelta che non può essere rimandata. Una nuova Assemblea Costituente per il ricambio della classe politica. Il noto storico-politologo Sergio Romano ha recentemente avanzato una spiegazione plausibile delle difficoltà di emendare in maniera radicale la Costituzione, sostenendo che il tentativo di Berlusconi è stato quello di ammodernare il sistema Italia aggirando la Costituzione senza cambiarla formalmente, per arrivare con altri mezzi, tra cui la legge elettorale, a un assetto di potere più decisionista e meno frazionato. Il tentativo è fallito laddove un’eccessiva torsione incontrollata dei poteri esistenti- basta pensare all’acuirsi dei conflitti con il potere giudiziario - ha condotto al risultato opposto, ha alimentato la piaga delle divisioni di parte fino a sottomettere il sistema alla falsa alternativa tra berlusconismo e antiberlusconismo. Riformare la Costituzione a questo punto non basta, ma si può e si deve per ridurre i costi della politica e rendere più efficiente il sistema di governo. Basterebbe cominciare a dare un segnale, a ridurre il numero dei parlamentari e abolire o trasformare l’attuale bicameralismo. Sarebbe una misura drastica ed esemplare per accorciare l’abissale distanza che permane tra la dimensione del Palazzo e la vita reale ed infonderebbe più fiducia nel senso dello Stato di chi ci governa. Ma a chi interessa approvare una misura che, dati i tempi, sembra rivoluzionaria e non lo è? A breve si avrà probabilmente un altro appuntamento elettorale con l’illusione che esso serva ad uscire da un sistema che si è via via avvitato su se stesso. Ma fino a quando l’arena politica sarà monopolizzata più da temi propagandistici che reali è lecito avanzare più di un dubbio sulla possibilità di ritrovare uno spirito da padri costituenti tra coloro che tra il primo, il secondo e ora il terzo Polo continueranno a contendersi il gioco partitocratrico. Si continua a non capire che aggiornare le regole di funzionamento della Repubblica dopo più di 60 anni è interesse di tutti, è la condizione necessaria seppure non sufficiente per trarci fuori dall’imbuto di inconcludenze e rissosità in cui ci siamo da troppo tempo cacciati. Probabilmente siamo al tramonto di un ciclo storico, di quello che talvolta impropriamente viene chiamato berlusconismo, quale grande rammendo fallito alle nostre carenze di sistema. Negli ultimi anni non sono certo migliorate né la rappresentanza delle forze politiche e neppure l’efficacia dell’azione amministrativa o la capacità di decisione nei tempi giusti. Si è invece accentuata rispetto agli anni precedenti la commistione tra incarichi di partito e incarichi di governo per non parlare del gran numero di ex magistrati che siedono nel parlamento della Seconda Repubblica. Ma chi ci fa più caso? Ripercorreremmo però gli stessi errori di altre epoche se facessimo finta che nulla è accaduto in questi ultimi anni e volessimo tornare indietro alle pratiche da Prima Repubblica. Se non altro dobbiamo apprezzare- un risultato che sembra irreversibile- che si siano abbandonate le fumisterie ideologiche del dopoguerra e che l’approccio ai problemi sia diventato più concreto. Ma proprio questo nuovo approccio ha già cambiato i termini di percezione del messaggio politico o elettorale: mentre prima le ideologie impregnavano a tal punto il dibattito pubblico da non richiedere altro che un generico consenso o dissenso a prescindere da programmi specifici e concreti, adesso sono i sondaggi a prevalere, è la corrispondenza tra il dire e il fare a venire evidenziata e reclamata come non mai e non può essere elusa per un tempo infinito. Il governo del fare prima di diventare un messaggio propagandistico ha espresso la comune esigenza che si trovassero gli strumenti adatti per risolvere in maniera appropriata e rapida i problemi sociali della nostra comunità nazionale al di là dei riti partitocratrici che continuano a caratterizzare la nostra storia. L’obbiettivo non è stato raggiunto per tanti motivi. Il PDL, il partito diventato egemone nel corso degli ultimi 15 anni, quello che Marcello Veneziani chiamava fino a poco tempo fa il Partito Del Leader, ha fallito nell’intento di rendere credibile e inattaccabile la sua stessa leadership votata a maggioranza come l’unica in grado di assicurare una crescente stabilità. Sta infatti avvenendo il contrario. Ciò non vuol dire che sparirà dopo questo periodo la tendenza alla personalizzazione della politica, del resto comune ad altre democrazie mature ad assetto autenticamente bipolare, così come non spariranno i sondaggi d’opinione e neppure le elaborate strategie mediatiche per assicurarsi il consenso popolare. Da noi il sistema bipolare è nato male e si è inceppato soprattutto perché, caso unico nell’Europa del 2000, il Partito Del Leader, quello di Belusconi, è nato prima del leader di partito, creando così esso stesso le condizioni di una possibile vulnerabilità del sistema. A sentire Bersani abbiamo la più bella costituzione del mondo, ma possiamo aggiungere che abbiamo anche il più brutto bipolarismo del mondo, espresso da questa classe politica e in base alla Costituzione vigente. Come è stato possibile? Ci manca solo che la propaganda voglia convincerci che questo bipolarismo all’italiana è l’ultima zattera, l’unica base di partenza per realizzare una seria riforma della seconda parte della Costituzione, l’obiettivo che tutti vorremmo si realizzasse. Ci accorgiamo invece ancora una volta come le scorciatoie non siano servite a niente e subito si ritorna nel pantano se a monte non vengono stabilite regole nuove e condivise di decente convivenza civile. Secondo la vulgata corrente siamo passati dalla Prima alla Seconda Repubblica con la medesima Costituzione. Una Costituzione e due Repubbliche. La realtà è invece che la Seconda Repubblica non è mai nata. Deve ancora nascere. Roma 10 dicembre 2010

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