Il Financial Times ha ragione, ma...
Cosa rischia l’Italia di BerlusProdi
Il declino c’è, anche se la politica fa finta di no. Per superarlo solo le larghe intesedi Enrico Cisnetto - 18 aprile 2006
Abbiamo imparato a nostre spese che i giudizi sull’Italia del mondo finanziario anglosassone, e dei giornali che ne sono espressione, non sono mai disinteressati. E temere che un certo establishment europeo oggi sia tentato dall’idea di portare a termine il lavoro di “colonizzazione”, iniziato negli anni Novanta agli albori delle privatizzazioni, non potrebbe davvero essere considerata una paranoia dietrologica.
Ma tutto questo non toglie fondamento al monito lanciato ieri dal Financial Times - cui ha fatto eco un più prudente ma non meno preoccupato New York Times - circa la debolezza di un eventuale governo Prodi. Certo, pronosticare un’uscita (leggi cacciata) dell’Italia dell’euro entro il 2015 a seguito di un default dei nostri conti pubblici è voler prendere in considerazione solo la nuance più nera nello spettro oscuro delle cose che ci possono accadere, ma - purtroppo - non si tratta di stravaganza. Che l’Italia corra dei pericoli per via di un declino strutturale lento ma inesorabile, lo andiamo ripetendo da anni. E fa specie che ora a dar ragione al quotidiano della City - vituperato solo un poco meno dell’Economist - siano quegli esponenti del centro-destra che fino a ieri negavano anche sotto tortura che l’economia italiana fosse in crisi. Così come che a ribellarsi al suo giudizio siano gli uomini del centro-sinistra che in questi anni hanno brandito la stampa internazionale come arma contro Berlusconi.
Contraddizioni del bipolarismo all’italiana, che non vuole darsi per vinto nonostante sia uscito clamorosamente sconfitto dalle urne. E già, perché dovrebbe essere ormai chiaro che la lettura politica dell’esito elettorale non può che essere una sola: gli italiani non hanno dato la maggioranza a nessuno (ragionamento valido anche in caso di un qualche rovesciamento del risultato), e non solo perché entrambi i poli non hanno raggiunto il 50% dei voti espressi, ma anche e soprattutto perché la radicalizzazione dello scontro - che tra l’altro spiega l’alta affluenza - ha finito col trasformare le elezioni del 9 e 10 aprile in una sorta di referendum presidenzialistico (nonostante la nostra sia una democrazia parlamentare) tra Prodi e Berlusconi, che entrambi hanno politicamente perso (l’aritmetica riguarda la legittimità, che è altra cosa). Si dice: ma chi ha (o avrà) anche solo un voto in più deve governare. Certo, se l’Italia fosse un paese normale e il suo sistema politico fosse maturato in una logica di sostanziale continuità pur nell’alternanza di forze diverse, che si rispettano e si legittimano. Ma così non è, e far finta che lo sia non è meno colpevole delle “cattive intenzioni” che possono aver spinto il Financial Times a menare gramo. Si dice ancora: il paese è spaccato, si torni a votare. A parte che non si capisce perché gli italiani dovrebbero cambiare idea, ma poi non è affatto vero l’Italia sia spaccata in due. Provate a fare questa somma: Forza Italia, Udc, una buona parte di An, Margherita, Udeur, una buona parte dei Ds, la Rosa nel pugno. Il risultato fa 65-70%. Non sto parlando dei partiti, ma degli elettori: gli italiani che hanno votato così sono più decisamente omogenei tra loro di quanto non lo siano con quelli che, a destra come a sinistra, hanno scelto le componenti più massimaliste. La fregatura sta nel fatto che questa grande maggioranza di italiani non solo sono costretti a dividersi per via di un’offerta politica forzatamente contrapposta, ma quel che è peggio fanno confluire i loro voti in due coalizioni che, per vincere, hanno bisogno di quelle forze che rappresentano il restante 30-35%. Da qui l’ingovernabilità.
Ma si obietta che la “grande coalizione” sarebbe un inciucio, o quantomeno una riedizione del vecchio consociativismo. Può essere un pericolo, è vero. Ma l’impasse che abbiamo di fronte è invece una certezza. E per superarla - volendo evitare l’idiozia di un ritorno al voto - intese più larghe dei confini delle due coalizioni ci vogliono. Solo che non possono essere né Prodi né Berlusconi a tessere questa tela. Pubblicato sul Messaggero del 18 aprile 2006
Ma tutto questo non toglie fondamento al monito lanciato ieri dal Financial Times - cui ha fatto eco un più prudente ma non meno preoccupato New York Times - circa la debolezza di un eventuale governo Prodi. Certo, pronosticare un’uscita (leggi cacciata) dell’Italia dell’euro entro il 2015 a seguito di un default dei nostri conti pubblici è voler prendere in considerazione solo la nuance più nera nello spettro oscuro delle cose che ci possono accadere, ma - purtroppo - non si tratta di stravaganza. Che l’Italia corra dei pericoli per via di un declino strutturale lento ma inesorabile, lo andiamo ripetendo da anni. E fa specie che ora a dar ragione al quotidiano della City - vituperato solo un poco meno dell’Economist - siano quegli esponenti del centro-destra che fino a ieri negavano anche sotto tortura che l’economia italiana fosse in crisi. Così come che a ribellarsi al suo giudizio siano gli uomini del centro-sinistra che in questi anni hanno brandito la stampa internazionale come arma contro Berlusconi.
Contraddizioni del bipolarismo all’italiana, che non vuole darsi per vinto nonostante sia uscito clamorosamente sconfitto dalle urne. E già, perché dovrebbe essere ormai chiaro che la lettura politica dell’esito elettorale non può che essere una sola: gli italiani non hanno dato la maggioranza a nessuno (ragionamento valido anche in caso di un qualche rovesciamento del risultato), e non solo perché entrambi i poli non hanno raggiunto il 50% dei voti espressi, ma anche e soprattutto perché la radicalizzazione dello scontro - che tra l’altro spiega l’alta affluenza - ha finito col trasformare le elezioni del 9 e 10 aprile in una sorta di referendum presidenzialistico (nonostante la nostra sia una democrazia parlamentare) tra Prodi e Berlusconi, che entrambi hanno politicamente perso (l’aritmetica riguarda la legittimità, che è altra cosa). Si dice: ma chi ha (o avrà) anche solo un voto in più deve governare. Certo, se l’Italia fosse un paese normale e il suo sistema politico fosse maturato in una logica di sostanziale continuità pur nell’alternanza di forze diverse, che si rispettano e si legittimano. Ma così non è, e far finta che lo sia non è meno colpevole delle “cattive intenzioni” che possono aver spinto il Financial Times a menare gramo. Si dice ancora: il paese è spaccato, si torni a votare. A parte che non si capisce perché gli italiani dovrebbero cambiare idea, ma poi non è affatto vero l’Italia sia spaccata in due. Provate a fare questa somma: Forza Italia, Udc, una buona parte di An, Margherita, Udeur, una buona parte dei Ds, la Rosa nel pugno. Il risultato fa 65-70%. Non sto parlando dei partiti, ma degli elettori: gli italiani che hanno votato così sono più decisamente omogenei tra loro di quanto non lo siano con quelli che, a destra come a sinistra, hanno scelto le componenti più massimaliste. La fregatura sta nel fatto che questa grande maggioranza di italiani non solo sono costretti a dividersi per via di un’offerta politica forzatamente contrapposta, ma quel che è peggio fanno confluire i loro voti in due coalizioni che, per vincere, hanno bisogno di quelle forze che rappresentano il restante 30-35%. Da qui l’ingovernabilità.
Ma si obietta che la “grande coalizione” sarebbe un inciucio, o quantomeno una riedizione del vecchio consociativismo. Può essere un pericolo, è vero. Ma l’impasse che abbiamo di fronte è invece una certezza. E per superarla - volendo evitare l’idiozia di un ritorno al voto - intese più larghe dei confini delle due coalizioni ci vogliono. Solo che non possono essere né Prodi né Berlusconi a tessere questa tela. Pubblicato sul Messaggero del 18 aprile 2006
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.