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La settimana corta? Basta che sia breve

“Copiamo” dalla Germania

Per curare la vera malattia italiana, servono ben altre cure

di Enrico Cisnetto - 23 dicembre 2008

La settimana corta? Ben venga, basta che sia breve. Non è solo un gioco di parole: come ha detto il ministro Brunetta, “la cassetta degli attrezzi per le politiche del lavoro prevede molti strumenti”. Usiamoli, dunque, questi attrezzi, e “copiare” dalla Germania lo strumento della riduzione di ore lavorate – e naturalmente del salario – per evitare licenziamenti di massa e cassa integrazione a gogò, può essere uno di questi. Del resto, la situazione produttiva del Paese è drammatica: oltre ai segnali arrivati sul fronte del fatturato e degli ordinativi industriali, che confermano una recessione non solo da credit crunch ma anche e soprattutto da crisi di modello di sviluppo, ci sono i dati – micidiali – di crescita della disoccupazione e di reiterato ricorso alla cassa integrazione. Cosa, questa, che non riguarda soltanto Fiat, in prima fila con 50mila lavoratori “fermi” (che diventano 200mila con l’indotto): ci sono anche Beretta, Piaggio, Indesit, Lucchini, Pirelli, Electrolux. Per non parlare di Fabriano, il “distretto bianco” dell’elettrodomestico.

Quindi, nessuna contrarietà a “cure” come quella tedesca. Ma con alcune precisazioni. Primo: che sia esclusivamente emergenziale. Secondo: serve solo per le grandi imprese. Terzo: occorre sapere che va nella direzione contraria di quella – di lungo periodo – di cui ha bisogno il Paese. Quello che serve – disperatamente – è un incremento della produttività, perchè negli ultimi dieci anni il Belpaese ha visto ampliarsi a dismisura il gap che lo separa dall’Europa, visto che a parità di ore lavorate il rendimento economico dei lavoratori italiani è cresciuto solo del 4,7%, contro il 18% medio della Ue a 15. Ciò significa che siamo cresciuti meno di un terzo rispetto ai nostri competitori del Vecchio Continente. E l’Istat, mesi fa, specificava anche quali fattori contribuiscono maggiormente al declino: la prevalenza sia di produzioni labour intensive, sia di comportamenti di impresa volti a perseguire obiettivi di redditività piuttosto che di produttività.

E’, insomma, la diagnosi che in questi anni la classe dirigente ha ascoltato nei convegni ma non fatto propria: quella di un tessuto produttivo che è ancora composto in larghissima parte da aziende che non hanno accettato la sfida della globalizzazione. Che sono rimaste ferme a paradigmi produttivi decotti: costo del lavoro decisivo, piccolissima dimensione, bassa o bassissima intensità di capitale e di know how, mancato utilizzo dell’innovazione di processo e di prodotto. Imprese che hanno scelto di arroccarsi su posizioni da “rentier”, magari investendo in immobili o speculando sui derivati – in questo caso cozzando anche contro lo “sboom” degli ultimi mesi – piuttosto che investire e andare a combattere sui mercati. Il risultato di questa asfittica dinamica industriale è, come ha certificato l’Istat, quello di aver causato un “grave quanto unico impoverimento dell’Italia rispetto ai suoi partner comunitari”. Con la conseguenza che tra il 2000 e il 2006 il reddito per abitante è passato da 4 punti sopra a 8 punti sotto la media europea. Come dire: in Europa eravamo tra i più ricchi, ora siamo tra i più poveri. E le conseguenze si fanno sentire a maggior ragione oggi, nel momento in cui la crisi finanziaria si è trasferita all’economia reale. Così solo ieri sempre l’Istat ha certificato che sale sia il numero delle famiglie che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese (dal 14,6% al 15,4%) ma anche – cosa ancora più drammatica – i “veri poveri”, quelli cioè che non hanno denaro per acquistare nemmeno gli alimentari (dal 4,2% al 5,3%).

Di fronte a questo scenario, guai se tornasse di moda il vecchio slogan sessantottino del “lavorare meno, lavorare tutti”. Se proprio ce ne fosse bisogno, la nuova parola d’ordine dovrebbe essere semmai quello del “lavorare di più, lavorare tutti”. Anche perché, laddove è stata applicata, la ricetta delle 35 ore è miseramente fallita, e in Francia lo sanno così bene che l’hanno accantonata. Considerazione finale: se dobbiamo imitare i tedeschi, copiamo fino in fondo. Se oggi la ruvida cancelliera Merkel può permettersi di essere particolarmente “soft” sulle misure anti-crisi, è anche perché dopo la riunificazione, la Germania ha messo a segno un colossale piano di ristrutturazione dell’industria, puntando sulle produzioni più innovative e a più alto contenuto tecnologico, ampliando la scala di campioni nazionali come Siemens e Daimler, e delocalizzando i comparti meno competitivi nell’est europeo. Una cura che in Italia nessuno ha il coraggio di applicare. Ecco perché la “settimana corta” è una medicina che si può prendere solo a patto che sia chiaro che trattasi di un sintomatico: per curare la malattia vera, servono ben altre cure.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.