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Sebbene non sia tutto da buttare via

Congiuntura e declino strutturale

Decisamente troppo poco, se si vuole continuare a essere una potenza economica

di Enrico Cisnetto - 21 luglio 2006

Chi si illude, gode. L’idea che l’Italia non sia affatto in declino perché nei primi cinque mesi di quest’anno le esportazioni sono aumentate del 10%, e nei primi quattro il fatturato e gli ordinativi “internazionali” sono cresciuti dell’11,5% e del 16,4%, è profondamente sbagliata per almeno quattro ordini di motivi. Primo: si tratta di dati congiunturali che segnalano certo una tendenza positiva, ma che sono solo parzialmente compensativi della caduta del valore dell’export negli ultimi anni: in particolare tra il 2003 e il 2005, quando l’interscambio mondiale è cresciuto molto, la nostra quota è scesa prima dal 4,1% al 3,8% e poi al 3,5%, toccando il punto più basso considerato che nel 1992 (data fatale) facemmo il massimo con il 5,1%. Secondo: è vero che la capacità esportativa è il termometro della competitività di un sistema industriale – anche se nell’economia di oggi conta di più essere globali, cioè produrre nei vari continenti – ma è pur vero che questa forza la possiedono solo cinque settori (meccanica-macchinari, legno-mobili, tessile-abbigliamento, cuoio, alimentare), tutti tradizionali del made in Italy, e che se vuol continuare ad essere una delle grandi potenze economiche mondiali è decisamente troppo poco. Terzo: l’aumento delle esportazioni è solo in valore, perché in termini quantitativi le statistiche ci dicono che sono quattro anni che calano al ritmo del 2% all’anno, contro una crescita della torta del commercio mondiale del 6%. Ora è vero che l’incremento di valore supera, in termini reali, la dinamica dei prezzi di qualche punto, e questo testimonia una maggiore capacità di mettere sul mercato prodotti a più alto valore aggiunto, ma comunque non siamo al passo, e non solo per quantità, con l’esplosiva crescita del commercio internazionale degli anni, quelli, per capirci, con il pil mondiale a +5%. Quarto: in termini sistemici, un paese trasformatore come il nostro non può permettersi di avere una bilancia commerciale in rosso, tanto più se i primi cinque mesi fanno segnare un -12,7 miliardi dopo che già l’anno scorso si era registrato un deficit di 10,368 miliardi, il peggior risultato dagli anni Ottanta. Peraltro, che su questo fronte le cose stiano precipitando lo dimostrano due semplici calcoli: l’anno scorso la nostra bilancia commerciale sarebbe stata in surplus per 30,214 miliardi al netto dei minerali energetici (petrolio greggio e gas naturale), che hanno mostrato un saldo negativo di 40,582 miliardi, e questo significa che se a far testo sono i primi cinque mesi di quest’anno a fine 2006 ci ritroveremo con un saldo positivo di soli 22,32 miliardi al netto dell’energia (oltre un quarto di meno dell’anno scorso) e con un saldo del comparto energetico negativo per 52.970 miliardi (visto che tra gennaio e maggio è stato di -22.071), ben un terzo in più del 2005. Altro che applausi.
Tuttavia, questo non significa che debba sfuggirci il processo di trasformazione che è in atto in quei settori che trainano l’export. Prima di tutto il cambiamento di pelle che sta facendo l’industria meccanica, che quest’anno dovrebbe fatturare una quarantina di miliardi, con una crescita del 6,4% (nel 2005 quasi 36), e toccando il livello più alto di produzione degli ultimi 16 anni. Nelle macchine per la lavorazione del legno, poi, alla tendenza dell’ultimo trimestre 2005 alla crescita degli ordini (+7,4%) si è aggiunto ora il risveglio dell’export (+37%). L’Italia è poi al secondo posto nella produzione di macchine tessili in tutto il mondo (2,6 miliardi di euro di fatturato), e l’89% della sua produzione viene esportata in oltre centotrenta paesi. E’ l’Asia, con la Cina in testa, a domandare prodotti italiani, rappresentando il 42% delle esportazioni del 2005. Nelle macchine per il movimento terra (due miliardi di euro di fatturato), le stime delle esportazioni del settore sono previste per il 2006 e del 2007 in crescita rispettivamente del 7,6% e del 2,4%, con un aumento della produzione del 4,5% e del 3,4%. Anche nelle macchine per la lavorazione del vetro l’Italia ha una percentuale di fatturato estero che è del 72%, con esportazioni cresciute dell’8,1%.
Tutto questo dimostra che il settore manifatturiero italiano non è assolutamente da buttare e che alcune realtà imprenditoriali – quelle che hanno saputo puntare sull’innovazione di processo e di prodotto e sulla qualità, quasi sempre di medie dimensioni, all’avanguardia nell’uso della tecnologia e coraggiosse nell’investire in ricerca percentuali altissime del loro fatturato – continuano a mietere profitti e a godere di ottime prospettive. Ma quanto pesano questi settori e queste aziende nel complesso di un capitalismo sempre più caratterizzato da nanismo e marginalità? Relativamente poco. E siamo disposti a scommettere tutto su questi comparti, lasciando andare al loro destino il grosso della nostra industria e relativo terziario “non avanzato”? E, anche quando lo facessimo, sarebbe sufficiente? E per quanto tempo possiamo reggere una bilancia commerciale così? Ah, quanti capitoli mancano al grande libro sul declino che non c’è…

Pubblicato sul Foglio del 21 luglio 2006

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