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Oggi molte analogie con gli eventi del 1992-94

Confindustria per la Costituente

Montezemolo chiede una nuova Costituzione. Ma il patto proposto da Bondi è tardivo

di Enrico Cisnetto - 30 dicembre 2005

C’è un passo delle “considerazioni di fine d’anno” del presidente della Confindustria, pubblicate sul Sole 24 Ore del 27 dicembre, che le rendono niente affatto rituali. Scrive Luca Cordero di Montezemolo, dopo aver descritto senza reticenze il quadro di declino che spinge all’eutanasia la nostra economia, che all’Italia “serve una sorta di Costituente che guardi ai meccanismi istituzionali ma anche all’economia e alla società”, un “pit stop eccezionale con cui rettificare la macchina del Paese Italia”. Non è la prima volta che da Montezemolo vengono segnali di preoccupazione sulla condizione del Paese – ricordo, per esempio, un intervento sulla Stampa ad inizio 2005 sulla scarsa qualità della classe dirigente – e già in altri casi si era spinto a pronosticare, come ripete anche in quest’ultima circostanza, che “chiunque vincerà le elezioni avrà enormi difficiltà a governare”. Ma è la prima volta che traduce la necessità di una “rifondazione” con la parola Costituente, che essendo scritta con la maiuscola toglie ogni dubbio circa il significato di quella affermazione, seppure attennuata da quel “sorta” che la rende apparentemente generica.

Naturalmente, le reazioni alla sortita confindustriale non si sono fatte attendere, e come al solito le bordate polemiche sono venute prevalentemente dal centro-destra, cosa incomprensibile visto che Montezemolo – un po’ come aveva fatto Standard & Poor’s riducendoci il rating – non si limita a dare brutti voti a questo governo, ma mette nel conto che se anche la prossima legislatura fosse ad appannaggio del centro-sinistra, le cose non cambierebbero. Ovviamente, la critica più fondata riguarda il ruolo delle imprese: io stesso da queste colonne ho più volte scritto che c’è un ritardo, culturale prima ancora che pratico, del sistema industriale ad accettare l’idea che la globalizzazione abbia cambiato, direi stravolto, le regole del gioco e che la semplice continuità dell’attività tradizionale, magari anche con un po’ di costi in meno e un pizzico di innovazione in più, non è riproponibile. Ma nei limiti derivanti da una posizione scomoda – tante aziende del manifatturiero old style sono iscritte a Confindustria e le chiedono di rappresentare i loro interessi – Montezemolo non ha mancato di sollecitare i suoi colleghi a ripensarsi. E, d’altra parte, è difficile immaginare che in un paese immobile e maledettamente conservatore (interessi, diritti) siano le imprese a ridefinire il modello di sviluppo. Questo è un compito della politica, ed è proprio dal vuoto di progettualità che il bipolarismo italiano ha espresso, non da un’improbabile autoriforma delle imprese, che occorre partire per trovare il bandolo della intricata matassa italica.

Forse di questo, cioè della necessità di riformare il sistema politico, deve essersi accorto il forzista Sandro Bondi, se ieri sul Giornale ha lanciato ai Ds l’idea di un patto per salvare la politica dai poteri forti, laddove s’intendono la magistratura, taluni media e i gruppi finanziari che li posseggono. Peccato che la sua proposta difetti nei tempi e nei modi: troppo tardi dire oggi che i maggiori partiti delle due coalizioni devono legittimarsi reciprocamente, dopo che proprio lo scatenamento di una guerra di religione – sulla quale c’è un perfetto concorso di colpa tra Forza Italia e i Ds – ha prodotto ilo fallimento del bipolarismo. Bondi, che è persona intelligente, non commetta l’errore che fu di tutti i maggiori esponenti della Prima Repubblica, quando attribuirono agli stessi poteri forti di cui ora parla Bondi la responsabilità di quanto accadde nel 1992-94. Certo, la magistratura colpì con metodi giustizialisti, certo i giornali crearono il consenso popolare intorno alla garrota giudiziaria, spargendo a piene mani il sale corrosivo dell’antipolitica anche per conto di poteri finanziari che si erano illusi di avere a disposizione scorciatoie tecnocratiche che poi si sono rivelate impercorribili. Ma tutto ciò non sarebbe accaduto se quel sistema politico non fosse stato esangue, incapace di autoriformarsi e di esprimere quella forza nel governo dei grandi processi economici e sociali che è sempre il miglior antidoto a qualunque contropotere. Lo stesso discorso vale oggi: invece di attardarsi a difendere un bipolarismo che è miseramente fallito, finendo così per legare la propria sorte al definitivo default di quel sistema – appuntamento vicino se, come tredici anni fa, i contropoteri sono nuovamente all’opera, con analogie comportamentali impressionanti – partiti e uomini politici avveduti (io mi ostino a chiamarli i riformisti) dovrebbero coraggiosamente fare un patto, questo sì, per rivedere l’impianto politico-istituzionale del Paese.

E qui torniamo alla “suggestione” di Montezemolo: la Costituente. Cosa ci sarebbe di più alto e forte che convocare un’Assemblea Costituente chiamandola a ripensare non solo gli assetti istituzionali – che comunque saranno da cambiare dopo il referendum di giugno, sia che rimanga la pessima devolution del centro-destra sia che ritorni la pessima riforma del titolo V del centro-sinistra – e quelli politici derivanti da una legge elettorale veramente europea (proporzionale alla tedesca o maggioritario alla francese, non gli obbrobri all’italiana vecchi e nuovi), ma anche la “costituzione materiale”, dal modello di sviluppo al sistema di welfare? Speriamo che la linea 2006 della Confindustria batta soprattutto questo tasto.

Pubblicato sul Foglio del 30 dicembre 2005

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