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Public Policy

I sentimenti dei partiti

Condòmini incapaci

Le liberalizzazioni non faranno bene al pil

di Davide Giacalone - 25 gennaio 2012

Il governo Monti emana e proclama, nel mentre i grossi partiti applaudono e piangono a turno. Talora gioendo e disperandosi nello stesso momento, per autocommiserazione. Tanto alto (e meritato) è il discredito della politica che la supposta tecnicità delle scelte governative porta con sé una certa popolarità. Eppure basta guardare alle presunte liberalizzazioni e all’idea di utilizzare la Cassa depositi e prestiti per permutare partecipazioni azionarie contro denaro spendibile, per riconoscere il dna neocorporativo e statalista di quel che si va facendo. Si sono chiamate “liberalizzazioni” delle regolazioni centralistiche, per giunta considerandole utili ad un balzo felino del prodotto interno lordo. La realtà è ben diversa: nel decreto si descrive uno Stato che stabilisce quanti sono i notai, quante le farmacie, quanti i taxi, uno Stato che decide per il bene del mercato e del cittadino, dotandosi di nuove autorità centrali. E lo fa per decreto (vedo che il Quirinale tarda a firmare, segno che il problema da noi sollevato c’è, sebbene sarà, alla fine, ignorato).

Queste decisioni, che non liberalizzano un bel nulla, ma aumentano l’offerta regolamentata, frazioneranno il pil assai più di quanto non lo facciano crescere. L’idea di trasferire partecipazioni azionarie pubbliche nella Cassa depositi e prestiti, ricavandone quattrini con cui pagare i debiti, è pura cosmesi contabile, perché lo Stato vende allo Stato. Operazione tecnicamente furba, che crea non pochi problemi (ad esempio richiede “connivenza” da parte della Banca d’Italia), ma tutta interna alla logica statalista. Nulla a che vedere con quanto qui proposto, e credo necessario: mettere patrimonio immobiliare, partecipazioni e crediti dentro una nuova società, incaricata di vendere gradualmente, ma a scadenze fissate, in modo da raccogliere risparmio (garantito) e produrre liquidità con la quale abbattere il debito pubblico (di 30 punti percentuali), offrire risorse per investimenti infrastrutturali e non gravare sui contribuenti, i quali, all’opposto, dovrebbero vedere scendere la pressione fiscale.

Mentre la sinistra finge di fare il tifo a favore delle liberalizzazioni (che non ci sono) e la destra finge entusiasmo per misure immediate, che decretino un cambio radicale del mercato del lavoro (e neanche queste ci sono), il governo procede inchiodando sempre di più l’Italia al centralismo programmatorio e allo statalismo pervasivo, per giunta negando di star costruendo una nuova Iri, quindi rinunciando all’intento positivo legato alla nascita di quell’istituto: una politica industriale nazionale. Si badi, queste non sono critiche al governo Monti. Non mi piace il collettivo disertare dall’ovvio, sicché si lasciano passare cifre a capocchia, come la crescita dell’11% del pil grazie alle liberalizzazioni. Delirio.

Non mi piace il conformismo che biascica di sobrietà, tanto che, oramai, metto le mutande di pizzo pur di non sentirmi assimilato. Ma la colpa non è di Monti, o dei suoi ministri, la colpa è nel credere che un Paese possa essere amministrato come un condominio, talché si mettono le piante all’ingresso, come vuole Rossi del terzo piano, ma anche l’ascensore a vetri, come vuole Bianchi dell’ottavo, ponendo fine a una guerra interdittiva, che si facevano da anni, e imponendo i vegetali a Bianchi e la trasparenza a Rossi. I partiti che applaudono e piangono a turno sono ridotti a condòmini senza idee e senza programmi, oramai espropriati da un amministratore che li prende in giro. Il guaio è che un Paese senza politica è solo un Paese in cui la politica non si decide democraticamente. Esiste, ma non si vede e non si giudica. Però, cribbio, gli spread calano.

Monti è stato bravo. Monti è bravo, ma noi ripetiamo, fin dalla scorsa estate, che gli spread non misurano la nostra salute, e oggi calano perché forse si fa l’accordo per tenere la Grecia nell’euro, non creando un precedente che porterebbe al disfacimento della moneta unica. Se l’accordo si chiude noi resteremo, comunque, con 40-45 miliardi l’anno da tagliare e tassare, per venti anni. Se non si chiude torneranno a salire, fino alla rottura. Dopo di che, in entrambe i casi, potremo prendere le piante di Rossi e spaccarci i vetri di Bianchi, dando sfogo a una rabbia tanto inutile e fessa quanto la pretesa che una democrazia funzioni senza politica democratica.

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