Perché non si ferma la corsa del petrolio
Comunque vada, sarà un rialzo
E l’Italia è tra i paesi consumatori a risentire maggiormente del boom del petroliodi Enrico Cisnetto - 12 marzo 2008
Comunque vada, sarà un rialzo. Ieri il prezzo del petrolio si è avvicinato pericolosamente alla nuova soglia psicologica – impensabile fino a qualche anno fa, ma difficile da credere anche solo qualche settimana fa – dei 110 dollari al barile. Una corsa senza freni che risente di due fattori opposti, uno reale e uno finanziario.
Da una parte, infatti, il mondo è sempre più affollato di paesi ex emergenti e ormai affermati industrialmente (Cina e India in primis) che con la loro richiesta di oro nero, necessario per sostenere i loro tassi di sviluppo, stanno innescando pericolose pressioni sui prezzi. Senza dimenticarsi che il petrolio non significa soltanto energia ma è anche una materia prima alla base di produzioni massive e strategiche come la carta e la plastica.
Dall’altra, poi, continua a crescere l’instabilità geopolitica nelle aree dei paesi produttori: la guerra in Iraq è ancora molto lontana da una possibile conclusione, mentre l’Iran è sempre più aggressivo nei confronti dei paesi occidentali. Poi, altri paesi produttori un tempo considerati sicuri – come il Venezuela – stanno ripensando in chiave nazionalistica i propri rapporti con le grandi major petrolifere. Lo stesso presidente Chavez ha fatto sapere che un eventuale conflitto in America Latina spingerebbe i prezzi del petrolio a quota 200 dollari al barile. In questo senso, per il normale gioco di domanda e offerta, il prezzo del petrolio potrebbe continuare a salire all’infinito.
Ma non è solo la domanda produttiva a spingere in alto i prezzi. Ultimamente, i timori di un rallentamento – un modo elegante per dire recessione – dell’economia Usa hanno spinto gli investitori a orientarsi sempre più verso beni rifugio come il petrolio ma anche l’oro, che registra infatti un altro record storico, avvicinandosi alla clamorosa cifra di 1000 dollari all’oncia. In particolare, sul greggio c’è stato in questi ultimi mesi un vero e proprio riposizionamento da parte degli investitori istituzionali: dopo le pesanti batoste più recenti, le grandi banche d’affari e i broker hanno abbandonato settori che negli ultimi anni hanno garantito rendimenti a doppia cifra, primo fra tutti quello dei mutui subprime.
Dopo il crollo di questo comparto è arrivata la débâcle dei derivati, poi ancora quella dei bond assicurativi. Tutti investimenti che hanno dovuto essere rimpiazzati nei portafogli dei grandi investitori. Così, il petrolio è diventato un impiego finanziario sempre più utilizzato, e considerato più redditizio rispetto a quelli sulle obbligazioni o sulle divise. Hedge fund e fondi comuni hanno riorientato i loro portafogli innescando così una scommessa generalizzata al rialzo.
Ecco allora che, da qualunque parte la si guardi, quella del greggio potrebbe essere potenzialmente una corsa senza fine, soprattutto grazie ad un meccanismo di mercato ormai tutto basato sulle aspettative (con il sistema dei futures). Cosa che accade anche se la componente di domanda “virtuale”, cioè basata sulle attese, sembra sostenere questa tendenza più di quella reale: proprio ieri, infatti, nonostante la forte “sete di greggio” di paesi come Cina e India, l’Associazione Internazionale dell’Energia (Aie) ha tagliato leggermente le stime sulla domanda globale del 2008, portandola da 87,6 a 87,5 milioni di barili giornalieri.
Naturalmente, l’Italia in questo quadro globale risente più degli altri paesi consumatori del boom del petrolio. La scellerata scelta di abbandonare il nucleare, e la dipendenza sempre più marcata dagli idrocarburi, fa in modo che ogni rincaro del greggio si traduca da noi in un aumento automatico delle tariffe. Con i nuovi aumenti, ci aspetta dunque una primavera “calda” per quanto riguarda benzina e bollette, mentre tutto questo porterà ad una nuova fiammata inflazionistica.
E’ probabile, quindi, che il dato di gennaio – inflazione al 3% contro il 2,6% del mese precedente, livello massimo mai toccato dal 2001 – abbia perso i caratteri dell’occasionalità, e rischi invece di diventare strutturale, forse addirittura aggravandosi. Cosa che diventa ancor più pesante alla luce di una classifica Ocse, che colloca il salario medio italiano (19.861 dollari netti nel 2007) al ventitreesimo posto, dietro a Grecia e Spagna, a fronte di una media Ocse di 24.660 dollari e Ue di 26.434.
D’altra parte sappiamo che la questione di una crescita significativa di salari e stipendi va posta in modo da non deprimere una produttività già bassa (il pil per lavoratore è oggi inferiore a quello del 2000), e questo significa che il nodo vero è il ritorno ad uno sviluppo economico non inferiore al 3%. E siccome negli ultimi 11 anni siamo cresciuti dell’1,4% l’anno (2,2% Eurolandia, 3,2% gli Usa) e le previsioni per il biennio 2008-9 non vanno oltre il mezzo punto, è chiaro da che parte occorra cominciare. Petrolio o non petrolio.
Da una parte, infatti, il mondo è sempre più affollato di paesi ex emergenti e ormai affermati industrialmente (Cina e India in primis) che con la loro richiesta di oro nero, necessario per sostenere i loro tassi di sviluppo, stanno innescando pericolose pressioni sui prezzi. Senza dimenticarsi che il petrolio non significa soltanto energia ma è anche una materia prima alla base di produzioni massive e strategiche come la carta e la plastica.
Dall’altra, poi, continua a crescere l’instabilità geopolitica nelle aree dei paesi produttori: la guerra in Iraq è ancora molto lontana da una possibile conclusione, mentre l’Iran è sempre più aggressivo nei confronti dei paesi occidentali. Poi, altri paesi produttori un tempo considerati sicuri – come il Venezuela – stanno ripensando in chiave nazionalistica i propri rapporti con le grandi major petrolifere. Lo stesso presidente Chavez ha fatto sapere che un eventuale conflitto in America Latina spingerebbe i prezzi del petrolio a quota 200 dollari al barile. In questo senso, per il normale gioco di domanda e offerta, il prezzo del petrolio potrebbe continuare a salire all’infinito.
Ma non è solo la domanda produttiva a spingere in alto i prezzi. Ultimamente, i timori di un rallentamento – un modo elegante per dire recessione – dell’economia Usa hanno spinto gli investitori a orientarsi sempre più verso beni rifugio come il petrolio ma anche l’oro, che registra infatti un altro record storico, avvicinandosi alla clamorosa cifra di 1000 dollari all’oncia. In particolare, sul greggio c’è stato in questi ultimi mesi un vero e proprio riposizionamento da parte degli investitori istituzionali: dopo le pesanti batoste più recenti, le grandi banche d’affari e i broker hanno abbandonato settori che negli ultimi anni hanno garantito rendimenti a doppia cifra, primo fra tutti quello dei mutui subprime.
Dopo il crollo di questo comparto è arrivata la débâcle dei derivati, poi ancora quella dei bond assicurativi. Tutti investimenti che hanno dovuto essere rimpiazzati nei portafogli dei grandi investitori. Così, il petrolio è diventato un impiego finanziario sempre più utilizzato, e considerato più redditizio rispetto a quelli sulle obbligazioni o sulle divise. Hedge fund e fondi comuni hanno riorientato i loro portafogli innescando così una scommessa generalizzata al rialzo.
Ecco allora che, da qualunque parte la si guardi, quella del greggio potrebbe essere potenzialmente una corsa senza fine, soprattutto grazie ad un meccanismo di mercato ormai tutto basato sulle aspettative (con il sistema dei futures). Cosa che accade anche se la componente di domanda “virtuale”, cioè basata sulle attese, sembra sostenere questa tendenza più di quella reale: proprio ieri, infatti, nonostante la forte “sete di greggio” di paesi come Cina e India, l’Associazione Internazionale dell’Energia (Aie) ha tagliato leggermente le stime sulla domanda globale del 2008, portandola da 87,6 a 87,5 milioni di barili giornalieri.
Naturalmente, l’Italia in questo quadro globale risente più degli altri paesi consumatori del boom del petrolio. La scellerata scelta di abbandonare il nucleare, e la dipendenza sempre più marcata dagli idrocarburi, fa in modo che ogni rincaro del greggio si traduca da noi in un aumento automatico delle tariffe. Con i nuovi aumenti, ci aspetta dunque una primavera “calda” per quanto riguarda benzina e bollette, mentre tutto questo porterà ad una nuova fiammata inflazionistica.
E’ probabile, quindi, che il dato di gennaio – inflazione al 3% contro il 2,6% del mese precedente, livello massimo mai toccato dal 2001 – abbia perso i caratteri dell’occasionalità, e rischi invece di diventare strutturale, forse addirittura aggravandosi. Cosa che diventa ancor più pesante alla luce di una classifica Ocse, che colloca il salario medio italiano (19.861 dollari netti nel 2007) al ventitreesimo posto, dietro a Grecia e Spagna, a fronte di una media Ocse di 24.660 dollari e Ue di 26.434.
D’altra parte sappiamo che la questione di una crescita significativa di salari e stipendi va posta in modo da non deprimere una produttività già bassa (il pil per lavoratore è oggi inferiore a quello del 2000), e questo significa che il nodo vero è il ritorno ad uno sviluppo economico non inferiore al 3%. E siccome negli ultimi 11 anni siamo cresciuti dell’1,4% l’anno (2,2% Eurolandia, 3,2% gli Usa) e le previsioni per il biennio 2008-9 non vanno oltre il mezzo punto, è chiaro da che parte occorra cominciare. Petrolio o non petrolio.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.