"Nessuno purtroppo ha la bacchetta magica"
Come possiamo uscire dal declino?
Le domande di un giovane liberista sulla politica industriale e la risposta di Speronidi Alessandro Marchetti - 21 ottobre 2005
Intervengo solo ora nel ricco dibattito sulle ragioni di una politica industriale, che in questi mesi avete animato su Terza Repubblica.
Sono uno dei tanti liberisti scolastici, quelli che fin da giovani hanno imparato che il mercato e le sue regole sono l’unica dimensione possibile per le imprese e i consumatori.
Mi pare di capire che il tema chiave della discussione fosse la validità e l’opportunità o meno di una politica industriale in Italia, proprio ora che, siamo d’accordo, il tessuto industriale del Paese appare poco competitivo, nel complesso mediocre.
Come qualcuno recentemente ha osservato, l’idea di una vera politica industriale per il rilancio delle imprese fa immediatamente tornare in mente parole come dirigismo e Stato-Imprenditore, una realtà onnipresente e parassita a cui per tanti anni ci siamo abituati. In proposito è anche vero che, come ama spesso ricordare Enrico Cisnetto, il modello di sviluppo che per quarant’anni ha guidato l’Italia ha permesso ad un Paese in macerie di rialzarsi e raggiungere, attorno agli anni Ottanta, la top ten dei Paesi più industrializzati del mondo; tuttavia quel sistema che per tanti anni ci aveva permesso di crescere, fatto soprattutto di debito pubblico ed industria di Stato (il sistema finanziato dalle tre Bin e quindi dalla Mediobanca cucciana), ha decisamente “narcotizzato” il capitalismo italiano impedendo il diffondersi di una vera cultura d’impresa, quella di cui oggi si sente fortemente il bisogno. Come ho ricordato tempo fa in un articolo sull’Opinione, quello che è in questi anni è mancato al Sistema Italia è stato probabilmente un Governo Thatcher; ovvero una grande stagione di riforme e liberalizzazioni che, sulla spinta delle privatizzazioni obbligate dall’Europa, ridesse fiato al mercato e ai grandi investitori privati liberi di rilanciare i settori in crisi, aprire alla concorrenza e magari dedicarsi alla finanziarizzazione dei comparti strategici, abbattendo costi e tariffe.
Tuttavia sappiamo bene come andò a finire negli anni 92-95, e quali conseguenze paghiamo oggi di privatizzazioni fatte male e troppo in fretta; questo ci fa sicuramente riflettere sulle ricette più adatte per arginare il declino, accelerato particolarmente dall’export asiatico. Premesso che l’esperienza francese ci insegna che la formula della politica industriale non sempre è sinonimo di investimenti pubblici o assunzioni nelle PA (l’Agenzia per l’innovazione ne è un fulgido esempio), come può la politica italiana far crescere le imprese se non tramite la deregulation e le agevolazioni fiscali (vedi Irap)? Al di là di quella che è l’efficienza e la competenza della classe politica attuale, come possono politiche coordinate di iniziativa pubblica risolvere i problemi profondi del Mezzogiorno? L’idea che esiste di una Banca del Sud, rilanciata di recente da Giulio Tremonti, a oggi fa pensare a tutto tranne che ad una soluzione valida e innovativa alla questione (se non sbaglio la Cassa del Mezzogiorno è esistita per tanti anni per lo più a controllo pubblico).
In definitiva, quali possono essere oggi gli ingredienti di una politica concertata che rilanci seriamente l’Italia?
Rimango con i miei interrogativi se non altro perché, al di là della mia convinta fede liberista, è forte il desiderio di imparare con interesse strumenti e ricette di cui si dispone oggi per rilanciare l’economia italiana, specialmente da chi ne capisce più di me.
Alessandro Marchetti (a.marchetti@excite.it)
Risponde Donato Speroni,
Caro Alessandro, grazie del tuo commento. Quello che ho imparato in tanti anni di dibattiti sullo sviluppo in Italia è che nessuno ha la bacchetta magica: non esistono ricette miracolose per risolvere i divari di un Paese o per accelerare lo sviluppo. Tu vedi solo due ricette valide: la deregulation e le agevolazioni fiscali. Anche qui bisogna intendersi. La deregulation è certamente indispensabile, visto il peso della burocrazia in Italia, anche se non deve significare assenza di controlli. I mercati più efficienti sono comunque mercati regolati, anche se ovviamente c’è da vedere chi e come li regola.
Gli sgravi fiscali sono utili, ma se indiscriminati rischiano di essere molto costosi rispetto all’obiettivo. E qui sta il punto. In realtà, a fronte di tante dichiarazioni liberiste, l’Italia ha una massa di strumenti di intervento sulle attività produttive che nessuno, meno che mai la Confindustria, si sogna di voler abolire. Alcuni di questi strumenti funzionano bene, altri così così, altri ancora sono inutili. Ecco, io penso che invece di fare tante dichiarazioni di principio si debba andare a vedere in concreto qual è oggi la strumentazione delle politiche d’intervento e razionalizzarla alla luce di obiettivi generali che non possono che essere di grande strategia politica: il consolidamento dei settori competitivi, l’aumento del tasso d’innovazione, lo sviluppo del Mezzogiorno. Tutto qui.
Sono uno dei tanti liberisti scolastici, quelli che fin da giovani hanno imparato che il mercato e le sue regole sono l’unica dimensione possibile per le imprese e i consumatori.
Mi pare di capire che il tema chiave della discussione fosse la validità e l’opportunità o meno di una politica industriale in Italia, proprio ora che, siamo d’accordo, il tessuto industriale del Paese appare poco competitivo, nel complesso mediocre.
Come qualcuno recentemente ha osservato, l’idea di una vera politica industriale per il rilancio delle imprese fa immediatamente tornare in mente parole come dirigismo e Stato-Imprenditore, una realtà onnipresente e parassita a cui per tanti anni ci siamo abituati. In proposito è anche vero che, come ama spesso ricordare Enrico Cisnetto, il modello di sviluppo che per quarant’anni ha guidato l’Italia ha permesso ad un Paese in macerie di rialzarsi e raggiungere, attorno agli anni Ottanta, la top ten dei Paesi più industrializzati del mondo; tuttavia quel sistema che per tanti anni ci aveva permesso di crescere, fatto soprattutto di debito pubblico ed industria di Stato (il sistema finanziato dalle tre Bin e quindi dalla Mediobanca cucciana), ha decisamente “narcotizzato” il capitalismo italiano impedendo il diffondersi di una vera cultura d’impresa, quella di cui oggi si sente fortemente il bisogno. Come ho ricordato tempo fa in un articolo sull’Opinione, quello che è in questi anni è mancato al Sistema Italia è stato probabilmente un Governo Thatcher; ovvero una grande stagione di riforme e liberalizzazioni che, sulla spinta delle privatizzazioni obbligate dall’Europa, ridesse fiato al mercato e ai grandi investitori privati liberi di rilanciare i settori in crisi, aprire alla concorrenza e magari dedicarsi alla finanziarizzazione dei comparti strategici, abbattendo costi e tariffe.
Tuttavia sappiamo bene come andò a finire negli anni 92-95, e quali conseguenze paghiamo oggi di privatizzazioni fatte male e troppo in fretta; questo ci fa sicuramente riflettere sulle ricette più adatte per arginare il declino, accelerato particolarmente dall’export asiatico. Premesso che l’esperienza francese ci insegna che la formula della politica industriale non sempre è sinonimo di investimenti pubblici o assunzioni nelle PA (l’Agenzia per l’innovazione ne è un fulgido esempio), come può la politica italiana far crescere le imprese se non tramite la deregulation e le agevolazioni fiscali (vedi Irap)? Al di là di quella che è l’efficienza e la competenza della classe politica attuale, come possono politiche coordinate di iniziativa pubblica risolvere i problemi profondi del Mezzogiorno? L’idea che esiste di una Banca del Sud, rilanciata di recente da Giulio Tremonti, a oggi fa pensare a tutto tranne che ad una soluzione valida e innovativa alla questione (se non sbaglio la Cassa del Mezzogiorno è esistita per tanti anni per lo più a controllo pubblico).
In definitiva, quali possono essere oggi gli ingredienti di una politica concertata che rilanci seriamente l’Italia?
Rimango con i miei interrogativi se non altro perché, al di là della mia convinta fede liberista, è forte il desiderio di imparare con interesse strumenti e ricette di cui si dispone oggi per rilanciare l’economia italiana, specialmente da chi ne capisce più di me.
Alessandro Marchetti (a.marchetti@excite.it)
Risponde Donato Speroni,
Caro Alessandro, grazie del tuo commento. Quello che ho imparato in tanti anni di dibattiti sullo sviluppo in Italia è che nessuno ha la bacchetta magica: non esistono ricette miracolose per risolvere i divari di un Paese o per accelerare lo sviluppo. Tu vedi solo due ricette valide: la deregulation e le agevolazioni fiscali. Anche qui bisogna intendersi. La deregulation è certamente indispensabile, visto il peso della burocrazia in Italia, anche se non deve significare assenza di controlli. I mercati più efficienti sono comunque mercati regolati, anche se ovviamente c’è da vedere chi e come li regola.
Gli sgravi fiscali sono utili, ma se indiscriminati rischiano di essere molto costosi rispetto all’obiettivo. E qui sta il punto. In realtà, a fronte di tante dichiarazioni liberiste, l’Italia ha una massa di strumenti di intervento sulle attività produttive che nessuno, meno che mai la Confindustria, si sogna di voler abolire. Alcuni di questi strumenti funzionano bene, altri così così, altri ancora sono inutili. Ecco, io penso che invece di fare tante dichiarazioni di principio si debba andare a vedere in concreto qual è oggi la strumentazione delle politiche d’intervento e razionalizzarla alla luce di obiettivi generali che non possono che essere di grande strategia politica: il consolidamento dei settori competitivi, l’aumento del tasso d’innovazione, lo sviluppo del Mezzogiorno. Tutto qui.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.