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Economia. Imparare dalla storia

Coltivare il mare e lasciar stare la terra

La lezione della Repubblica di Venezia

di Luca Bolognini - 23 agosto 2012

Mille e cento anni sono parecchi, a maggior ragione se confrontati con i 150 della nostra Unità d"Italia. Tanto durò la Serenissima Repubblica di Venezia, nata nel 697 e caduta, ad opera di Napoleone e per la debole e pavida resistenza dell"ultimo Doge, nel 1797. 1100 anni che videro Venezia imporsi come Repubblica marinara, con una potenza e una ricchezza tuttora invidiate nel mondo. Venezia, dunque, prosperò per più di un millennio, conquistando i mercati commerciali globali, via nave. Controllando economicamente gli avamposti e i porti strategici e le relative risorse di scambio, ottenne il dominio commerciale sul Mediterraneo e sulle rotte delle merci che dall"Oriente arrivavano in Europa. Un proverbio era la regola d"oro dei Dogi, nei secoli di maggiore ricchezza della Serenissima: “Coltivar el mar e lassar star la tera”. Coltivare il mare e lasciare stare la terra, cioè insistere con l"economia viva, commerciale, internazionale senza perdersi dietro vane espansioni e conquiste nella terraferma. Concentrarsi dinamicamente sul mercato, e non cedere alla tentazione delle rendite e dei possedimenti “immobili”. Molti collocano l"inizio della decadenza di Venezia proprio a cavallo tra la fine del XVI e tutto il XVII secolo, quando le nuove generazioni di patrizi si ribellarono alla “coltivazione del mare”, e puntarono sulle rendite latifondiste, sull"evasione fiscale fuori dalla città (una sorta di “off shore” ante litteram) e sulle bonifiche dell"entroterra, pagate a caro prezzo dallo Stato veneziano con conseguente esplosione del debito pubblico. Il decorso storico non fu istantaneo, naturalmente, ma – coerentemente con la lentezza di 1100 anni di Storia – è lecito ravvisare proprio in quella fase l"inizio della parabola discendente degli ultimi due secoli di Repubblica Serenissima. Questa sintetica e, giocoforza, parziale ricostruzione storica ci può far riflettere oggi, nell"Italia del 2012, in piena crisi di futuro e in vista del 2013. La globalizzazione di questi anni ha tramortito la capacità economica dell"Europa, e minaccia di relegarla in una posizione de-industrializzata, senza più orizzonti né scampo. L"Italia è messa, se possibile, peggio di molti cugini europei, schiacciata da un debito pubblico mostruoso, invecchiata e invecchiante, carente di idee e di forza innovatrice. E" un"Italia ripiegata sul passato, quella delle rendite privilegiate e dei sussidi a vanvera, quella che teme la competizione interna e internazionale. Quel Belpaese che, ancora nell"estate del 2012, discute in Parlamento e cerca di far approvare riforme protezioniste, nell"illusione di poter impedire con stratagemmi vari, per fare un esempio specifico, agli avvocati di altre nazioni di fare concorrenza agli avvocati italiani in patria. Quell"Italia in cui oltre l"80% delle famiglie ha case di proprietà che poi lascia spesso sfitte, in cui la mobilità sociale (sia nel senso qualitativo/meritocratico sia nel banale senso geografico/logistico) è ai minimi termini, in cui avere un figlio è qualcosa di raro, straordinario, rischioso. Un Paese pieno di esclusioni e di esclusive, dove pochi insider incombenti riescono a succhiare e desertificare le opportunità di crescita, emarginando una massa potenzialmente fortissima di outsider, estromessi dai giochi, penalizzati sistematicamente (penso alle nuove generazioni, oramai anche quarantenni, o alle donne sotto-rappresentate in politica e nelle istituzioni, ai tanti italiani all"estero per necessità e virtù e agli stranieri di seconda generazione nati in Italia). Tutte cose, per fortuna (nella sfortuna), ormai note ai più, ma giova ripeterle. Come rispondere a questa emergenza storica? A questa decadenza gattopardesca? In un dibattito pubblico, tempo fa, feci l"esempio dei cani al parco. Una buona regola, che molti padroni di cani conosceranno, è questa: se si sta passeggiando con fido al guinzaglio, e arriva un altro cane libero ad attaccarlo, non si deve cercare di difenderlo, si deve mollare subito il guinzaglio e lasciare il proprio cane libero di difendersi da solo. Se non si molla il guinzaglio, il nostro fido verrà sbranato. Se arriva un “nemico” libero, devi poterti difendere e devi farlo da solo. Lo Stato (il “padrone") ha un obbligo: liberarti. E un divieto: mettere le sue mani in mezzo, nella zuffa, cercando di difenderti inutilmente, dannosamente per sé e per tutti. Torniamo a Venezia e alla sua Serenissima (e super-competitiva) Repubblica millenaria: prosperò avanzando nel mercato senza frontiere, dominandolo, vedendo nella globalizzazione del tempo un"opportunità e non una maledizione, come pure avrebbe potuto depressivamente pensare - dopotutto, della partita erano i normanni, i bizantini, gli ottomani, altre Repubbliche marinare, e tanti altri “mostri” da combattere, nei secoli. Fu Venezia uno Stato direttamente imprenditore? Furono, le imprese veneziane, imprese pubbliche gestite da patrizi-funzionari in nome e per conto dello Stato? Tutt"altro, la Repubblica era ricca perché ricchi diventarono i suoi nobili, privatissimi mercanti. Ma la Serenissima accompagnò quelle iniziative di mercato con una costante azione militare che rispondeva, a sua volta, ad una lucida visione strategica internazionale: non invase il campo della gestione diretta dell"economia, ma predispose sempre il terreno (meglio, il mare) e scortò le rotte tracciate, liberamente, dal mercato. Un migliaio di anni dopo, sotto l"ombrellone in questo agosto di crisi, faremmo bene a guardare fisso il mare. Per tornare a coltivarlo, lasciando stare la terra.

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