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Collasso di un modello di sviluppo

di Enrico Cisnetto - 15 gennaio 2004

Viviamo in un momento storico in cui gli aspetti congiunturali sono decisamente marginali rispetto ai grandi trend che stanno ridisegnando l'economia mondiale con effetti di lungo periodo. Purtroppo, nella mappa dei sistemi-paese e dei grandi aggregati economici la nave Italia (sulla scia della flottiglia europea) è in balia di correnti sfavorevoli e, in maniera ancor più inquietante, appare priva di una direzione e senza la minima capacità propulsiva.

Recentemente la Banca d'Italia ha certificato che stiamo vivendo il più lungo periodo di stagnazione dal dopoguerra: è iniziato nel 2001 e non accenna a concludersi. In realtà, la crisi di questo triennio, testimoniata da un tasso di crescita media del Pil inferiore all'1% annuo, è solo l'ultimo tratto di un decennio in cui il sistema economico si è mosso per semplice forza d'inerzia, una spinta sempre più flebile che è stata definitivamente troncata dalla recessione globale del 2001. Basta fare un raffronto, su base decennale, tra i tassi di crescita americani, europei e italiani: fino agli anni '80 la nostra economia è cresciuta a ritmi più alti delle altre due aree (nel decennio 1973-82 è stata del 3,2% contro il 2,3% dell'UE e il 2,4% degli Usa), nel periodo successivo è scesa ai livelli europei (2,3% Italia contro 2,4% UE), ma è stata sorpassata dagli States (3,4%). Nell'ultimo decennio il gap si è ulteriormente aggravato: 1,6% Italia, 2,1% UE e 3,2% Usa.

A dieci anni di distanza pochi hanno studiato i meccanismi che hanno portato al lento deterioramento del nostro modello di sviluppo e al suo collasso agli inizi degli anni Novanta (al tempo stesso causa ed effetto degli sconvolgimenti politici dovuti a Tangentopoli). Probabilmente dipende dai molti aspetti "poco presentabili" del patto politico-economico del dopoguerra che, di fatto, ha continuato a produrre ricchezza fino a che elementi esterni (la caduta del comunismo, l'adesione alla moneta unica e la globalizzazione) non l'hanno reso obsoleto.


Per trent'anni i pilastri su cui si è retta la crescita italiana sono stati essenzialmente tre: il debito pubblico, la svalutazione "competitiva" della lira e il protezionismo.
  • La "finanza allegra", che ha portato ad accumulare un debito pari al 124,3% del Pil (record storico toccato nel 1994) e che ancora continua a crescere in termini assoluti fino agli attuali 1400 miliardi di euro, ha funzionato come meccanismo di redistribuzione. Con un doppio ritorno per i cittadini: finanziava un "welfare all'italiana", dove l'assistenzialismo era diffusissimo e di cui godeva un fronte sempre più vasto di ceto medio in misura non paragonabile a nessun'altra esperienza occidentale; assicurava tassi d'interesse sul debito che, essendo per lo più in mano degli stessi risparmiatori italiani, sosteneva i redditi personali.
  • La svalutazione della lira ha invece permesso l'affermazione di una crescita fondata sull'export e ha mascherato una crescente erosione della competitività e della produttività delle imprese italiane. Tra il 1971 e il 1993 la diminuzione del tasso di cambio nominale nei confronti delle principali monete è stata prossima al 70%.
  • Il protezionismo ha avuto molte manifestazioni, dirette ed indirette: è facile fare riferimento ai tanti salvataggi dello Stato-imprenditore, o gli aiuti ad aziende private. Ma ci sono forme di protezionismo più indirette che si sono verificate ogniqualvolta le imprese hanno agito a scapito delle regole del mercato: la tolleranza verso una diffusa evasione fiscale o verso l'utilizzo di lavoro nero sono fenomeni che hanno inciso pesantemente sulla performance economica nel ventennio 1970-1990. Il tutto foraggiato dal debito.

Il decennio dell'inerzia

Quando tutto il sistema è crollato sotto il peso dei suoi debiti, nessuno ha saputo proporre un'alternativa e abbiamo vissuto il "decennio dell'inerzia", in cui si è creduto che lo sviluppo altrui si sarebbe automaticamente importato, limitandosi nel frattempo a curare solo i sintomi più urgenti del dispendioso ma nello stesso "virtuoso" regime precedente. Ma più che di "illusione collettiva" o di un errore di valutazione, credo sia il caso di parlare di mancanza di progetti alternativi, a causa di un sistema politico in perenne transizione e incapace di forza progettuale, oltre che di un ceto imprenditoriale incapace di essere sistemico. Si prendano ad esempio le privatizzazioni, gestite con l'unico criterio di fare cassa e con una fede eccessiva nel "mercato perfetto e autoregolatore". La necessità di far fronte agli impegni europei ha di certo spinto sull'acceleratore delle vendite: tra il 1992 e il 2001, le privatizzazioni hanno fruttato incassi per 97,7 miliardi di euro (dopo la Gran Bretagna, l'Italia è il secondo Paese europeo per volume di dismissioni). Fondi andati in larga parte a diminuzione del debito pubblico e degli oneri per gli interessi sul debito stesso.

Ma nel frattempo non si è fatta alcuna riflessione su come adattare le liberalizzazioni alle esigenze dei singoli mercati. Una lacuna figlia del fatto che gran parte di quelle vendite sono state gestite da un governo di centrosinistra, pronto a dimostrare l'abbandono di ogni tentazione statalista abbracciando in maniera acritica postulati iperliberisti che hanno creato scompensi su molti mercati regolati (si pensi all'energia elettrica) anche rispetto a paesi di tradizione liberale decisamente maggiormente consolidata. Una coalizione più "legittimata e riconosciuta" avrebbe potuto imporre senza timore una ricetta propria ed evitare molti scompensi odierni.

Purtroppo mentre la politica si dibatteva nelle sue contraddizioni, tuttora irrisolte, il sistema industriale è andato incontro ad un ulteriore deterioramento e non ha saputo reinventarsi. Dal punto di vista dimensionale si è accentuato il peso della microimprenditoria, mentre i pochi grandi gruppi sono spariti o risultano in via di disfacimento. L'Italia storicamente è in Europa la nazione con le aziende più piccole, il 48% dei 4,1 milioni e oltre di imprese censite nel 2000 avevano da 1 a 9 addetti. La media (3,6 addetti) si è addirittura leggermente contratta rispetto al 1996. In piena controtendenza con il resto del mondo, dove le aziende, per effetto della globalizzazione, sono state costrette a crescere per non perire. Dalla dimensione derivano tutta una serie di squilibri tristemente noti. Il più importante, in un'ottica futura, riguarda gli scarsi investimenti per la ricerca tecnologica: l'Italia spende solo l'1,07% del Pil, contro la media UE dell'1,88% e quella OCSE del 2,24%. Ma tale ritardo è molto più colpa delle imprese private (spendono meno della metà delle loro colleghe europee), che dello Stato, i cui livelli d'investimento sono appena al di sotto della media UE. L'altra conseguenza è la scarsa internazionalizzazione: le imprese esportatrici italiane sono solo 170 mila (il 4% del totale), e tra l'altro soltanto il 10% di esse (le 17 mila più grandi) assommano il 90% dei 260 miliardi cui ammonta il valore totale del nostro export. L'85% delle vendite italiane all'estero fa capo ad un nucleo stabile di circa 80 mila esportatori presenti sul mercato da prima del 1996. Risultato: dal 1997 ad oggi l'Italia ha perso 1,7 punti nel mercato mondiale degli scambi. Infine, sempre da attribuire al problema dimensionale, l'incapacità di accedere ai mercati finanziari e l'eccessiva dipendenza dal credito bancario e dall'autofinanziamento. Per completare il quadro, non bisogna trascurare gli effetti della nostra recente storia economica: la fine del sistema protetto delle grandi imprese ha spazzato via l'establishment senza sostituirlo con una classe dirigente capace di avere il ruolo d'indirizzo che è riscontrabile in tutti gli altri paesi industrializzati. Infine, la crisi economica sta aumentando gli squilibri storici tra Nord e Sud e favorendo l'economia sommersa (il 17% del Pil secondo le prudenti stime dell'ISTAT, ben il 33% secondo il Fondo Monetario Internazionale), fenomeni perniciosi che continuano ad incidere pesantemente sul nostro sistema economico.


Il contesto internazionale

La necessità di reinventare un nuovo modello di sviluppo non è affatto facilitata dal contesto internazionale. L'Italia non ha trovato nell'euro e nell'UE un ombrello protettivo ed uno sprone verso la virtuosità, anzi ormai condivide con i partner lo stallo di un processo d'integrazione ormai conclamato. Il tutto mentre l'intero continente è schiacciato dalla doppia eccellenza degli USA (leader finanziari e tecnologici) e del Far East (imbattibili sui costi di produzione). Gli Stati Uniti sono il centro tecnologico e finanziario del globo: Wall Street rappresenta il 60% delle transazioni finanziarie mondiali e tassi di crescita della produttività segnano capacità d'innovazioni al di fuori della portata del vecchio continente. Inoltre il fatto che gran parte delle ricadute tecnologiche provengano da investimenti pubblici fatti nell'industria militare, rende praticamente irreplicabile a livello europeo il modello americano, visto che è difficile pensare che l'Europa arrivi alla decisione comune di investire cifre paragonabili in settori politicamente delicati come la difesa, mentre singolarmente nessuno può mettere in campo i "muscoli" statunitensi. La distanza resasi evidente negli anni '90 potrebbe addirittura aumentare se la svalutazione del dollaro e il conseguente apprezzamento dell'euro finirà, come sembra, per sterilizzare quel po' di crescita regalataci dagli americani attraverso l'aumento delle importazioni.

L'Asia, e in primis la Cina, rappresenta uno spauracchio molto evocato nel dibattito italiano. Purtroppo anche in questo caso si può parlare di un'occasione persa. Per contrapporsi alla loro capacità di produrre a basso prezzo non basteranno certo i dazi, mentre una reazione aggressiva sui loro nascenti mercati potrebbe creare spazi straordinari. Ma solo facendo in fretta si può sperare di ritagliarsi un ruolo prima che avvenga una saldatura - l'incontro pieno tra i possessori delle tecnologie con i produttori a buon mercato - che marginalizzi completamente l'Europa. Si prospettano dunque tempi duri per i vecchi regimi europei, la cui capacità di reazione è ulteriormente ridotta dai contrasti tra i vari partner. Non certa una buona prospettiva per l'Italia, che sicuramente ha meno margine degli altri per resistere ad un lungo periodo di stagnazione.


Il 2004

Dopo aver dipinto questo quadro, purtroppo a tinte fosche ma realistico, ha poco senso cercare di prevedere se il Pil tricolore sarà in grado di superare (e di quanto) il fatidico 1% sfruttando la ripresa americana. L'economia nel 2004 potrebbe segnare un punto di svolta solo se prendesse peso la consapevolezza della gravità dei problemi e si avviasse un dibattito sui passi necessari per ricucire i molti strappi nel tessuto produttivo italiano. La politica è chiamata per prima a tale compito, ma tutte le componenti sociali dovranno diventare consapevoli che alla lunga non ci sono posizioni al riparo dalle avversità. Dunque, smettano per primi economisti e analisti di animarsi intorno alle cifre della congiuntura per impegnarsi nel ben più necessario lavoro di verifica e proposta intorno alle grandi questioni strutturali, oserei dire epocali, che riguardano il capitalismo e i sistemi sociali dell'Italia e dell'Europa.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.